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Intervista con Rino Adamo

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Rino Adamo è un violinista lucano, residente in Toscana, con buoni studi accademici alle spalle, attivo nell’ambito jazzistico, o in aree più o meno confinanti, da una ventina d’anni. Nel suo excursus artistico può vantare collaborazioni eccellenti, anche se, ultimamente, si è concentrato sul suo strumento in solitaria. È sempre stimolante intervistare un musicista così pieno di pensieri divergenti da illustrare. Ecco com’è andata.

A due anni di distanza dalla pubblicazione di “Music for a film never filmed” esce il tuo nuovo album “Tra due mondi/between two worlds”, ancora una volta in solo. Nel precedente, però, erano presenti ospiti in alcune tracce. In questo non ci sono altre voci oltre la tua. La scelta del solo è dettata dalla situazione particolare che stiamo vivendo, legata alla pandemia, o è una precisa opzione estetica, del tuo modo di sentire e realizzare la musica in questo momento?
Negli ultimi anni, e a partire dal mio primo lavoro in solo del 2016 (Electric Life Suite-14 Violin Solos) ho esplorato con sempre maggiore interesse e convinzione la dimensione musicale solitaria nella quale, a mio avviso, un musicista può cercare di trovare e dare voce alla sua vera “essenza”. Secondo me questo genere di approccio é indispensabile nell’ambito delle musiche di espressione e di impronta creativa/improvvisativa, come anche in alcune altre forme del jazz attuale. La scoperta, la ricerca, la consapevolezza nella dimensione del “solo” rappresentano delle tappe capitali nell’evoluzione di un musicista ma, prima ancora, di una persona. Per me questo è di sconfinata importanza, anche a prescindere dalla musica in senso stretto. Dall’altro lato della medaglia, il suonare con altri é un aspetto che ha accompagnato tutta la mia vita sin da ragazzino. Dal duo, alle varie formazioni, alle varie orchestre, ho suonato in differenti tipi di organico. Ovviamente questo è un momento di maggiore socialità, un momento di “mediazione musicale”alla ricerca del risultato migliore individuale, ma principalmente collettivo. Consideriamo, in ogni caso che la mia indole, la mia natura sono piuttosto solitarie. Avere tempo ben più che sufficiente, libertà per fare e stare da solo é sempre stato indispensabile per me per trovare un equilibrio personale. È anche vero, poi, che l’assurda situazione creata da questo virus ha drammaticamente ridotto i contatti umani e professionali di ogni tipo e mi dispiace molto, come penso provochi ansia e dolore a tutti quanti. Fra l’altro, un un anno fa io avevo in mente di scrivere alcune cose in trio o in quartetto che non ho ancora condensato, sviluppato Spero vivamente di poter realizzare in un futuro più o meno prossimo questo progetto, per ora non ancora definito nei dettagli.

In “Tra due mondi”, come scrivi nelle note di copertina, cerchi di sondare quell’area situata fra il mondo della musica e quello del rumore, mettendo in luce l’eventuale contrasto fra i due campi o cercando un anello di congiunzione ipotetico fra i rispettivi ambienti sonori. È questo un obiettivo sotteso al tuo modo di comporre e di suonare da un certo tempo o solo più recentemente ti sei rivolto a esplorare questo tipo di problematica?
Vorrei citare un pensiero di John Cage che può suscitare una importante meditazione in un musicista ed in chiunque, credo, cerchi di interessarsi al concetto di arte (e quindi dovremmo essere in tantissimi). La frase è la seguente:”Non ho mai ascoltato un suono senza amarlo,l’errore é la musica”. Facendo anche la “tara” sul radicalismo di Cage, ciò che poi resta di questo pensiero contiene comunque degli spunti di riflessione che potremmo conservare per giorni, forse per una vita intera.
Personalmente mi sono imbevuto di tanti linguaggi musicali in tutto il corso della mia vita, ma con la costante di non sentire mai completamente di “appartenere” a questo o a quel linguaggio.
Sicuramente l’essere transitato, e per molti anni, attraverso il jazz ha finito col darmi una certa impronta che in alcune fasi della mia parabola artistica è più o meno visibile. Allo stesso modo sono passato attraverso la “musica colta” ed i miei gusti si sono sviluppati e modificati nel corso degli anni contribuendo a formare ciò che io definisco il “vissuto sonoro”. Ho scoperto e amato negli anni Eric Dolphy, Bach, Schoenberg, George Russell, Bruno Maderna, Jimmy Giuffre,Strawinsky,la musica protobarocca, John Cage, Hindemith, Brian Eno ….e potrei continuare ancora almeno per un altro paio di righe. Avendo avuto (in quantità e momenti variabili) questi modelli di riferimento molto eterogenei sono stato segnato/obbligato sin quasi dall’inizio ad avere un atteggiamento eclettico, ad operare una continua sintesi di tutto ciò che costituisce il mio “vissuto sonoro”. Talvolta giungere a questa sintesi é stato molto piacevole. Altre volte é stato piuttosto lungo e complicato. Cercare di unificare gli estremi mi ha sempre affascinato. Volendo tentare un paragone, è un po’ come la storia dei fisici che cercano l’equazione che finalmente getti un ponte tra la fisica classica e quella quantistica. Ovviamente non credo ci riuscirò mai a raggiungere quell’obiettivo, o se dovessi riuscirci sarebbe per un lasso di tempo limitato, transitorio. È il percorso da compiere, per eventualmente pervenirci, il lato per me appassionante e formativo. Un fatto importante, una sorta di meteorite che ha impattato sulla mia superfice (negli ultimi nove/dieci anni) é rappresentato, inoltre, dalla scoperta, dallo studio e dal perfezionamento nell’utilizzo di processori di suono, effetti e programmi applicati ad un violino elettrico costruito secondo mie indicazioni già nel lontano 1989 da un liutaio di Ginevra. Entrare, attraverso il violino, nello sterminato oceano dell’elaborazione elettronica del suono, cercarvi pazientemente il mio possibile areale, sviluppando nel contempo nuove modalità espressive, é stata l’attività intensa e gratificante di questi ultimi anni. Inutile forse sottolineare la ricchezza delle risorse timbriche e di espressione di un così vasto e differenziato mondo di suoni, con la conseguente possibilità di poterci giocare e di poterli modellare a propria guisa.

Puoi spiegare come hai proceduto tecnicamente nella realizzazione del disco, utilizzando il violino elettrico, l’elettronica, le voci e i rumori?
La maggior parte dei brani nasce da un tema che espongo e poi sviluppo sul violino. Il suono del violino, in questi casi, contiene pochi effetti e si presenta con leggero delay o eco, o entrambi. A questa idea aggiungo, successivamente, in alcuni passaggi, delle sovraincisioni (anche più di una), sempre di violino, che preferisco restino molto spesso in secondo piano, e che sistemo sulla scena sonora cercando di avere un panorama audio ampio e differenziato, talvolta anche in movimento per l’ascoltatore. A seconda del tipo di ambiente sonoro che voglio modellare, posso aggiungere altre sovraincisioni sia di violino, impiegando effetti sonori di elettronica complessi, che possono completamente modificarne la timbrica originale, le frequenze dei suoni e lo spazio. Altre volte al violino assegno, sin dall’inizio, un’impronta in tempo reale con un’armonizzazione del tipo orchestra d’archi e quindi il violino perde la sua centralità per diventare una sorta di massa orchestrale.
Altre volte agisco in modo più minimale, partendo da singoli frammenti di suono, che nascono non necessariamente dal violino ma anche dal sintetizzatore, per intuizioni musicali incentrate più su una ricerca dell’impasto sonoro che su di uno sviluppo tematico vero e proprio. Solo in quest’ultima tipologia di situazione, posso, in un secondo momento, anche aggiungere strati di violino molto modificato con processori di suono. In questa modalità mi piace utilizzare il violino come un effetto secondario e discontinuo nella totalità dell’immagine audio. Per determinate esigenze, ancora, utilizzo frammenti di registrazioni ambientali che mi piace raccoglere in luoghi dove é forte la presenza umana, sui treni, ad esempio. Oppure mi limito semplicemente ad utilizzare una sola voce o un rumore di passaggio che ho rubato qua e là, sempre ad insaputa dei registrati. Alla fine curo sempre con estrema attenzione e personalmente la fase finale del missaggio. Per questo album ho impiegato molti giorni nel mixer, rispetto alle sette/otto ore totali di tracce registrate.

In “Tra due mondi” ci sono brani con una loro connotazione ritmica precisa. In altri il ritmo è più implicito che esplicitato, quasi avessi voluto costruire una dimensione fuori dal tempo in alcune tracce. Puoi illustrare le tue reali intenzioni relativamente a questo ambito (ritmico intendo).
Credo che ci sia ritmo anche in flussi di suoni dove in apparenza non pare esserci. Pitagora definisce ritmo “tutto ciò che si ripete uguale ad intervalli di tempo uguali”. Ci sono momenti in cui è molto evidente e altri nei quali segue un andamento irregolare e fluttuante. Nel jazz mainstream (che è molto vasto e tira molto) si ha una concezione del ritmo a mio avviso piuttosto parziale. Per fare un esempio, la batteria è molto considerata come strumento che porta il tempo più che come risorsa timbrica.
Nel mio ultimo lavoro, l’idea di ritmo è senz’altro sottintesa quasi ovunque e costituisce un elemento non fondamentale. Ad ogni buon conto, invece, nel brano “Cro-Magnon”, ho voluto utilizzare un sequencer programmato su una base ritmica quaternaria, spostando progressivamente gli accenti in modo da agire musicalmente su un terreno più mobile e instabile. In molti stili musicali il ritmo resta un elemento indispensabile. In altre modalità espressive, però, può essere percepito come una zavorra. In questo cd mi interessava utilizzarlo principalmente in modo più etereo e sfuggente. Per il resto ho sempre amato le sonorità degli strumenti a percussione e prediligo quegli ambiti dove hanno funzione più coloristica che ritmica. Da giovane avevo anche seguito un corso di percussioni sudamericane. Ricordo che all’epoca mi piaceva già considerare, forse profeticamente, la concezione del violino in funzione coloristica, alla maniera degli strumenti a percussione. Tutto questo credo sia piuttosto avvertibile nella mia dimensione solo-elettronica. Concludo dicendo che, comunque, non disdegno passare le serate anche sui fraseggi molto articolati del bop, del post-bop….ovviamente a modo mio.

Pur essendo provvisto di ottima tecnica, non ne fai mai sfoggio nei tuoi dischi e neppure, ovviamente, in questo disco in solo. Qual è il tuo rapporto con il virtuosismo?
La prendo un po’ larga, ma è necessario. E’ una questione di ordine di importanza. Dopo aver abbandonato il conservatorio per una sorta di crisi di rigetto, credevo che avrei smesso di suonare, tanto mi sentivo ingolfato dagli aspetti tecnici e poco educato alla sensibilità musicale. Ho passato del tempo, intorno ai ventuno/ventidue anni, senza più toccare lo strumento, per poi, dopo un annetto, rimettermi a dar di piglio al violino. La prima cosa che ho fatto è stata di di fare tabula rasa….anche mentale!
E smontare, demolire tutta la rigida impalcatura che il conservatorio mi aveva lasciato, una sorta di ingessatura, quasi totale. Una rivoluzione cruenta, che ha coinciso anche con un cambio netto di vita e di abitudini. Ho passato quindi più di un anno (14 mesi esatti) a fare il seguente esercizio tecnico-spirituale: suonare per almeno un’ora, orologio alla mano, note senza alcuna logica, assolutamente a caso, disordinatamente e con colpi d’arco anch’essi privi di collegamento. Potrebbe sembrare una cosuccia ma era per me un qualcosa di terrificante, faticoso, frustrante, soprattutto mentalmente. Quello che volevo era letteralmente buttarmi con il violino nel caos, distruggere tutto quello che avevo imparato. E’ stata l’esperienza “musicale” più difficile mai avuta nella mia esistenza. Nel corso di questo periodo, però, dall’indistinto cominciavano ad emergere delle nuove forme, come le pagliuzze d’oro tra i ciottoli del fiume. Questo è stato il mio vero big bang! Dal disordine progressivamente sono sbocciati degli elementi su cui poter ricostruire un percorso. In seguito mi sono avvicinato alla musica balcanica, al bluegrass americano,alla musica gipsy. Erano gli anni ‘80 e verso la fine del decennio sono arrivato al jazz. Ho avuto,per sei/sette anni, fior di maestri: Bruno Tommaso, Rava e Trovesi fra gli altri. Col mio primo quartetto nel 2001 siamo stati a Siena Jazz e c’era anche Enzo Boddi a sentirci. Credo che Boddi sia il critico musicale che mi conosce da più tempo, dagli inizi della mia carriera artistica, insomma. Stiamo arrivando al punto della tua domanda. Dopo il concerto, Boddi ha scritto una recensione su Musica Jazz indicandomi come “violinista atipico quasi monkiano, vera antitesi del virtuosismo..” In effetti suonavamo pure alcuni pezzi di Monk. E’ stato molto bello per me leggere questo giudizio, perché era come se Boddi avesse in quaranta minuti capito tutta la strada che avevo compiuto. Il fatto che adesso io suoni esclusivamente la mia musica vuol dire per me che l’unica virtuosità che mi interessa é quella della mia espressività, arricchirla, renderla più grande. E’ la musica ciò che alla fine conta. Tanto dii violinisti belli, bravi, simpatici e brillanti ce ne sono a caterve, ripeto a caterve sul pianeta. Chi é un virtuoso di violino? Boris Belkin o Paul Giger ? Jerry Goodman o Leroy Jenkins ? Sigiswald Kuijken o Zbignew Seifert ? Dominique Pifarely o Dave Swarbrick?  Nel jazz moltissimi suonano alla “maniera di”, talvolta scimmiottando drammaticamente improbabili modelli afroamericani (non sono nato ad Harlem, ma in Basilicata e anche l’inglese lo parlo davvero poco e male). Reputo di aver lavorato continuamente ad un mio stile da 30 anni almeno. Mi interessa solo quello. Ho ascoltato tutti i grandi violinisti del jazz, da Joe Venuti a Grappelli, da Ponty, a Pifarely… Non mi é mai,dico mai, appartenuta l’idea di dover impiegare il mio tempo di vita per cercare di suonare “come loro”. Ho altro da fare. Ho da cercare di somigliare a quello che sono io. E non é che sia sempre facile questo compito…Il mio stile é solo mio e, lo dico senza alcuna “menata”. Io lo so che si può riconoscere il mio suono tra mille altri, punto. Poi può, ovviamente, piacere o no, ma questo vale per tutti. Facevo, semmai, il virtuoso, per scena, al Circo Darix Togni, quando mi travestivo da violinista ungherese suonando travolgenti pezzi gipsy. Era la fine degli ‘80. Un’altra era geologica, a mio avviso….

Allarghiamo un po’ il discorso, oltre l’ultimo disco: ti consideri più un compositore o un improvvisatore? Stefano Pastor, anche lui violinista, mi ha confidato che, a suo parere, gli improvvisatori per definizione sono musicisti infedeli. Vale a dire che devono trovare sempre occasioni di incontro con diversi compositori istantanei per progredire nella loro esperienza. Non possono cristalizzarsi in una formula, in un connubio unico. Ti riconosci in questa affermazione? Qual è il tuo rapporto con la ricerca?
Al di la delle etichette che ci diamo o ci vengono affibiate io non saprei rispondere esattamente a questa domanda. Posso affermare di ritenermi un artigiano, un semplice artigiano che lavora con pazienza e costanza allo sviluppo della propria espressione attraverso uno strumento musicale. Per quanto riguarda il discorso della “fedeltà” posso dire di essere fedele solo alla mia ricerca. Non vedo molta fedeltà nei miei colleghi musicisti. Tantissimi corrono (con tutti i loro buoni motivi che non mi permetto di criticare) dietro a logiche di mercato che li portano a suonare con questo o con quello ed in tanti contesti diversi, per avere visibilità e trarre qualche giusta risorsa economica per campare. Credo che la “fedeltà” sia un lusso che molti non possono permettersi e credo non lo vogliano nemmeno, perché comunque la musica ed il jazz restano sinonimo di libertà. L’affermazione che tu citi non mi trova del tutto concorde. Nonostante le esperienze con altri musicisti improvvisatori o non, credo che la “ricerca” nasca e si sviluppi soprattutto in ambito personale, nella propria bottega,nel proprio laboratorio, nel proprio cervello o animo. Chiamalo come vuoi. Almeno per me é così. Poi, sicuramente possono essere molto positive anche le occasioni di confronto e collaborazione. Non ci sono dubbi in proposito.

Con quali musicisti hai collaborato con maggiore empatia? Voglio significare quelli con cui hai raggiunto un grado di intesa, di interplay quasi ideale?
Ho bellissimi ricordi di tutto quello che ho fatto con gli altri, senza alcuna distinzione. Ad ogni progetto é naturalmente legata una fase importante della mia vita.Quindi, quando avevo una certa età vivevo in un certo modo, abitavo in un determinato luogo, frequentavo alcune persone, guidavo una particolare macchina…Ho cambiato molte cose e varie volte in vita mia. Non tutto é andato sempre liscio come l’olio e ho avuto periodi anche molto aspri e difficili come ne ho avuti di meravigliosi. Ora se mi volgo indietro, posso dire che amo tutto quello che ho fatto e tutto quello che sono stato per divenire quello che attualmente sono. E’ per questo che non me la sento di fare una sorta di classifica, perché farei torto innanzitutto a me stesso. Sicuramente i partners di quei progetti lontani nel tempo talvolta mi appaiono quasi come un sogno rispetto a quelli incrociati più recentemente. Anche i dischi fatti tanti anni fa mi sembrano, a volte, opera di un altro musicista diverso da me. Amo tutto quello che ho inciso e nutro un grande, sincero affetto e notevole gratitudine nei riguardi di quanti hanno collaborato con me. Come pure sono affezionato a quel bambino che ero e poi a quel ragazzino pieno di sogni, al quale suo nonno (poco prima di andarsene) aveva fatto imbracciare per la prima volta un violino.

Per concludere, quali progetti hai per il futuro?
Una parte dei brani di “Tra due Mondi (between two worlds)” dovrebbe andare ad integrare un progetto al quale sto lavorando da un anno insieme ad altri (non musicisti). Si tratta di assemblare immagini e animazioni attorno a mie composizioni. In effetti trovo che gli ultimi due miei lavori siano stati piuttosto ispirati (nel precedente soprattutto, “Music for a Film Never Filmed”) dall’idea di flussi di visioni, di quadri e di fotografie montate ad arte…C’é poi l’intenzione, che mi stimola molto, di un ritorno alla scrittura per una mia formazione in trio o quartetto. Mi piacerebbe mettermi a comporre già nei prossimi giorni. L’inverno inoltrato é per me un periodo molto creativo. Infine ci sarebbe una mia vecchia idea, quasi un ritorno alle origini, cioè un lavoro sulla musica popolare della Basilicata (dove sono nato) con testi poetici e dialettali. Il tutto chiaramente visto attraverso le mie lenti ( deformanti?…). Colgo, anzi, l’occasione di questa tua intervista per lanciare un amo o una rete e trovare soggetti eventualmente interessati a produrlo. Chissà se mai un giorno ci sarà la facoltà di concretizzarlo….Prima che questo accada, é alquanto probabile io pubblichi un nuovo lavoro in solo ma, questa volta, nella dimensione acustica senza elettronica.

Non si può certo affermare che Rino Adamo sia privo di iniziative, o sia fermo su una posizione e continui a ripetere un identico clichè Aspettiamoci, perciò, altre sorprese da questo artista coerente con sé stesso fino all’intransigenza, aperto e disponibile sempre a nuove scoperte nel campo del jazz o in territori inesplorabili o inesplorati…