Parco della Musica (Auditorium Conservatorio da Palestrina e Teatro Lirico)
Cagliari, 14-17 ottobre 2021
photo by Agostino Mela
L’opulenza delle proposte (per quantità e qualità) a cui da sempre ci ha abituato il Festival Internazionale Jazz In Sardegna “European Jazz Expo” (EJE) si è ripetuta (con le dovute proporzioni in periodo di pandemia) con la quarantunesima edizione svoltasi dal 14 al 17 ottobre 2021, a Cagliari.
Nella quasi trentina di varie proposte offerte nei quattro giorni di programmazione, non s’è nemmeno perso lo spirito originario del festival, sempre attento sia al jazz internazionale che a quello nazionale e del proprio “territorio” (quest’anno i sardi Gavino Murgia, Paolo Carrus e due recenti proposte non jazzistiche dell’etichetta discografica Panel S’Ard Music: la cantante Stefania Secci Rosa e il trio vocale Balentes, bravissimi entrambi), ma anche alle musiche che del jazz oltrepassano i confini (soprattutto folkloriche), il tutto con allestimenti di mini-rassegne “a tema” (quest’anno una dedicata al jazz spagnolo e una seconda alle big band). Poi spazi rivolti alla didattica, con le lezioni-concerto “ImparoMusica” tenute dal musicologo e pianista Giovanni Bietti, coadiuvato dal batterista Luca Caponi, dal sassofonista Pasquale Laino e dal secondo pianista in aggiunta Alessandro Gwis; e con “Il jazz con gli occhi di un bambino”, evento sonoro musicale dedicato ai piccolissimi ideato e condotto dalla musicoterapeuta Francesca Romana Motzo. Poi ancora una mostra fotografica di Isio Saba negli eleganti vani dello scalo dell’aeroporto cagliaritano e conferenze, convention e presentazioni di vari progetti. Per finire, è stata certamente apprezzata la confermata politica dei prezzi bassi accessibili, con l’espediente di vantaggiosi abbonamenti, così il pubblico ha sempre riempito numeroso lo stupendo Auditorium del Conservatorio Giovanni Pierluigi da Palestrina, dove si sono svolti tutti i concerti, tranne quello d’apertura al Teatro Lirico.
Questa apertura è stata affidata allo spettacolo musical-teatrale in prima nazionale “Mimì da sud a sud“, con Mario Incudine: una rilettura orchestrale della musica di Domenico Modugno focalizzata sulle canzoni, oggi un po’ dimenticate, del suo primo periodo in dialetto salentino, rifacentesi alla tradizione popolare dei cantastorie siciliani. Sui testi di Sabrina Petyx, con la regia di Moni Ovadia e Giuseppe Cutino, Mario Incudine ha preso la scena con sapienza drammaturgica di consumato attore e voce potente e perfettamente intonata di appassionato cantante (stilisticamente discostantesi da quella di Modugno). Supportato dal suo consueto trio formato da Antonio Vasta al pianoforte, fisarmonica e organetto, Manfredi Tumminello alle chitarre e Pino Ricosta al contrabbasso e dai raffinati e appropriati arrangiamenti di Valter Sivilotti che pure ha diretto l’Orchestra del Lirico, Incudine ha allacciato l’una all’altra, costruendo un filo conduttore di pregnanza sociale e civile, le canzoni Minaturi, Lu frasulinu, La cicoria, Sciccareddu mbriacu, La donna riccia e Lu pisci spada, lasciando i grandi successi per la parte finale e i bis: L’uomo in frack, Nel blu dipinto di blu (proposto “a cappella”), e Dio come ti amo.
I gruppi statunitensi, che in tempo di pandemia difficilmente si ha la possibilità di avere in Italia, sono stati tre.
Il duo formato dal contrabbassista Dave Holland e dal chitarrista John Scofield ha offerto musica raffinata, pacata e estrosa, con riuscitissimi intrecci, richiami e risposte e assolo che hanno impreziosito le interpretazioni di “Not For Nothing”, “Hangover”, “Homecoming”, “Memories Of Home”, “Memorette” e il tributo a Ray Brown “Mr.B.” I due artisti sono sempre gli stessi: Holland dal suono caldo, il fraseggio chiaro e pulito, mentre Scofield, smussando solo certe sue irruenze, ha costellato il suo suonare con cadenze blues, spigolature leggermente distorte e richiami a Grant Green e Wes Montgomery (nel procedere con due note per ottave), integrandosi l’un l’altro fra mille deliziose sfumature in un elegantissimo equilibrio formale ed espressivo.
L’approccio del trio del pianista Emmet Cohen con Yasushi Nakamura al contrabbasso e Kyle Poole alla batteria è stato diverso, molto solare e di allegro divertissement, esplicitando energia e tecnica estroverse in diversi brani, da “Dardanella” un fox trot dei primi del Novecento, al classico dell’hard bop “Mosaic”, dal basiano “Lil’ Darling” all’ellingtoniano “Satin Doll” e anche una canzone di Peppino di Capri, “Nun è peccat” (che si può trovare nell’album “Infinity” della Skidoo Records). Cohen concepisce la costruzione degli assolo alla Ahmad Jamal, con improvvisi piano e altrettanto improvvisi forte, cambi di tempo e pause, mutamenti di atmosfera dalla più sfrenata e gioiosa alla più intimista, sorretto da un mirabile virtuosismo spesso inzuppato, sia per lontane velate assonanze che per dirette riprese di canonico déjà-vu, nello stride piano, in situazioni che ogni tanto scivolano nel vaudeville.
Se Emmet non fa molto trasparire le proprie ascendenze culturali ebraiche, Avishai Cohen (contrabbassista, da non confondersi con l’omonimo Avishai Cohen trombettista) invece sì: la sua musica è impregnata di stilemi derivati dalla musica tradizionale ebraico-sefardita, come in Arvoles (brano che dà il titolo al suo ultimo album e da cui sono tratti diversi altri brani eseguiti al concerto), oppure in “Face Me”, arabescata da un sapiente lavoro del leader all’archetto. Avishai Cohen si è presentato in trio con il pianista azero Elchin Shirinov e la batterista israeliana Roni Kaspi, poco più che ventenne. Un trio coeso nell’esplicitare tempi dispari inseriti in metri composti, una fascinosa e un po’ tenebrosa mistura di rievocazioni classiche barocche, medio-orientali e latino-americane e nell’insistere in loop melodici ostinati, sia del piano (ricordando certe esperienze minimaliste) che del contrabbasso (attraverso cui Cohen genera un’amplissima varietà di sonorità e cromatismi). Cohen ha chiuso con El sueño va sobre el tiempo, una canzone popolare di Sala “Garcia Lorca”, e “Remembering”, una sua ballad nobile e amara.
Anche il trio del sassofonista nuorese Gavino Murgia, con Fabio Giachino al pianoforte e alla tastiera elettrica e Patrice Heral alla batteria, ha dato una performance tecnicamente ed espressivamente di alto livello, piena di esuberanza vitale, senza fronzoli pur nella complicatezza dell’intricato linguaggio espresso. I suoi sassofoni (tenore e soprano) continuano inesausti in lunghi assolo che per lunghi tratti ricordano per impostazione e fraseggio quelli di Coltrane post 1963, alla pari di quelli al piano acustico di Giachino che si rifanno a Mccoy Tyner, e di Heral che ricorda l’esuberanza di Elvin Jones; ma sono riproposizioni totalmente personali, dove le radici della musica sarda fanno continuamente capolino e soprattutto sono poste, cambiando il proprio significato, in contesti diversi, sia per i temi di complicata struttura che per l’arrangiamento degli sviluppi di ogni brano, con cambi di status e di clima e gli interventi al canto dello stesso Murgia, il tipico canto a Tenore nel ruolo di Bassu.
Molto interessanti e meritorie sono state le due mini-rassegne “a tema”: la prima, “Spagna ospite d’onore“, con quattro compagini invitate per rappresentare al meglio l’odierno stato del jazz iberico; la seconda, “Que Viva Big Band“, volta a valorizzare la qualità delle giovani grandi orchestre.
Con il pianista Chano Dominguez a formare il Cuarteto Flamenco sono il sassofonista e cantante Antonio Lizana, il batterista (formidabile) Marc Miralta e il contrabbassista Manuel Fortià: il loro jazz incontra appunto il flamenco, riplasmando standard classici come Summertime e Round About Midnight attraverso le istanze melodiche, armoniche, ritmiche e d’atmosfera della musica andalusa, alternando la profondità con la leggerezza e l’eleganza rilassata con la frenesia incalzante.
Il trio composto da musicisti per molti anni nell’entourage di Paco De Lucia, il batterista Tino Di Geraldo, il bassista Carles Benavent e il sassofonista e flautista Jorge Pardo, ha ripreso il flamenco in maniera differente, basandosi su proprie composizioni e dando ampio spazio alle improvvisazioni, che con pathos ed eccellenti qualità tecniche tendono a ricalcare l’andamento melopeizzante tipico andaluso.
Il quartetto della flautista María Toro richiama invece, grazie ai ricordi dell’infanzia, la radice del folklore della Galizia, sua terra d’origine, fondendolo in un melting pot derivato dalle sue precedenti multiformi esperienze musicali, il jazz, il flamenco e la fusion, lasciando ampio spazio all’invenzione strumentale.
È da annoverarsi fra le cose migliori presentate al festival (assieme al duo Holland/Scofield e al trio di Murgia) un lavoro di ampie proporzioni, meticolosamente rifinito in ogni suo sviluppo e altrettanto meticolosamente messo in scena da un gruppo di nove musicisti (Cristina Mora al canto, Juan Carlos Aracil al flauto, Maureen Choi al violino, Luis Verde al sax alto, Mauricio Gómez al sax tenore, Tony Molina al trombone, Toño Miguel al contrabbasso e Alberto Brenes alla batteria), ensemble diretto da Moises P. Sanchez, che ne è anche il pianista e l’autore delle complicate partiture. Si tratta della libera riproposizione in chiave jazzistica del Concerto For Orchestra di Bela Bartok, in tre movimenti eseguiti senza soluzione di continuità in maniera serrata, dando ampio spazio agli interventi solistici, soprattutto dei due sassofoni e del trombone. Sanchez evidenzia, fra i vari aspetti del folklore ungherese a cui aveva attinto Bartok, quelli legati alla musica tzigana vicina, per cadenze e soluzioni formali, al flamenco; e mantiene, di Bartok, la ricchezza armonico- ritmica e l’idioma concentrato, riservato, austero, un po’ spigoloso, che si avviluppa in arabeschi che scorrono liberamente e suggeriscono le improvvisazioni rapsodiche conquistando una stupefacente diversità di effetti.
Il festival ha anche confermato, come si è detto, la propensione a dare spazio alle big band, quando per loro è sempre stata vita dura, a maggior ragione in questo periodo di emergenza sanitaria. A tal fine è stata anche meritoriamente organizzata dall’EJE una riunione di una quindicina di rappresentati di alcuni importanti jazz festival europei per stipulare un accordo finalizzato a creare una mobilità delle orchestre con un interscambio fra i festival e i jazz club firmatari.
La mini-rassegna orchestrale ha presentato il New Ensemble di Paolo Carrus, che ha ripreso melodie e atmosfere della musica tradizionale sarda trovando nell’impasto sonoro di cinque sassofoni la fantasmagorica ombra di canti antichi; la Sardica Orchestra di Paolo Nonnis, con un repertorio di brani di Stan Kenton rivisitati con grande senso dello swing e tecnica rigogliosa; e la Valter Paiola Orchestra, con un repertorio dedicato a Franco Califano riproposto in chiave latin-jazz.
Ha chiuso Butcher Brown, collettivo di musicisti americani comprendente il Dj Harrison, il bassista Andrew Randazzo, il chitarrista Morgan Burrs, il sassofonista e trombettista Marcus Tenney e il batterista Corey Fonville: una musica groove, dai toni easy listening con qualche sussulto soul e rock-jazz, buona per un saluto in pace e allegria.