Nogales, Arizona 22 aprile 1922 – Cuernavaca, Messico 5 gennaio 1979
1. Introduzione e inquadramento storico – stilistico
Innanzitutto devo precisare che la presente analisi riguarda esclusivamente la “head”, ovvero la parte tematica, scritta, del brano, e non le parti improvvisate aggiunte nelle varie versioni registrate. La mia attenzione è rivolta alla parte “obbligata”, ovvero “composta”, del brano, non alle esecuzioni avvenute o possibili dello stesso.
Questo brano fu composto e eseguito per la prima volta (al Village Vanguard di New York) nel 1974.
Non appartiene al repertorio “standard” sia per il periodo storico in cui fu concepito, sia per la struttura, atipica, sia per la concezione, lontana da quel tipo di estetica e di forma. Mingus viene infatti definito come uno dei grandi autori del “jazz moderno”: per “jazz moderno” si intende, generalmente, il jazz del dopoguerra o “post-bellico”, successivo quindi all'”era swing”, sottoposto alla rivoluzione del bebop e estremamente variegato, differenziatosi poi in correnti e direzioni percorse a livello individuale da artisti difficilmente raggruppabili in categorie (Coltrane, Davis, Mingus ecc.).
Benché definizioni poco basate su elementi musicali cerchino di affermare l’appartenenza di ognuno di questi artisti a una corrente o a un’altra, credo che sia più giusto, osservati i caratteri della loro musica, notare essenzialmente la fortissima individualizzazione del loro percorso: fra gli anni ’50 e gli anni ‘70 hanno visto la luce quasi tanti stili jazzistici quanti gli artisti stessi.
Da quel periodo in poi, è perfettamente naturale parlare di uno “stile personale”, mentre perde significato la tradizionale divisione in correnti o appartenenze. Così oggi Dave Holland, Jan Garbarek, Ralph Towner, Tino Tracanna, ecc., sono difficilmente inquadrabili in correnti e stili (e questa cosa a chi scrive piace molto).
Lo stile personale avvolge, dai ’60 in poi, tutti gli elementi della tecnica del jazz. Il timbro (visto che nel jazz la maggior parte dei compositori sono anche strumentisti ed esecutori della propria musica), lo stile improvvisativo, il modo di suonare sulle armonie, il fraseggio divengono, nel jazz moderno, “attrezzi” fortissimamente indicativi della personalità artistica di un autore (ovviamente, come sempre accade nella musica, questa indicazione non è assoluta: già prima degli anni ’50 vari personaggi si trovavano su questa strada, sfuggendo all’inquadramento in “correnti”; altrettanto, oggi non tutti gli autori del jazz contemporanei hanno stili spiccatamente personali; ma è vero che le differenze reali tra Armstrong e King Oliver appaiono meno significative di quelle presenti, ad es., fra John Coltrane e Wayne Shorter, o fra Wynton Marsalis e Kenny Wheleer).
In questo contesto di estrema attitudine all’individualismo stilistico va collocata l’opera di Mingus, il quale attingeva ovunque (dal ragtime al free, dal bop al gospel, dal blues a vari esotismi) ma fondeva ogni elemento in uno stile personale operando una sintesi con risultati, in alcune sue composizioni, raramente raggiunti da altri.
Proprio questo brano, apparentemente “libero” nella forma (“free form”, o “long form”, ovvero una forma che esula dalle proporzioni dei tradizionali AABA o dei blues in 8, 12 o 16 battute eccetera – pur rimanendo, in questo caso, a esse legato in qualche strano modo, come vedremo), apparentemente slegato da ogni appartenenza eppure segretamente immerso nelle radici poliedriche della poetica del suo autore, dimostra questa doppia direzione presa dal lavoro di Mingus, “a imbuto”: prendere ovunque, e produrre poi in una direzione estremamente personale.
Questo modo di procedere, di ispirarsi a ogni stile precedente per poi creare uno stile sintetico, causa la presenza, nella sua musica, di elementi disparati, criptati o evidenti, provenienti da musiche (di ispirazione jazzistica e non) di ogni tempo, elementi che questa riflessione intende evidenziare.
Si intende indicare, tra l’altro, la forte aderenza presente in questo brano fra il testo (ovvero le parole della “canzone”) e la linea melodica, entrambi scritti da Mingus, e dimostrare poi la capacità di questo grande autore di metabolizzare, più o meno consciamente, tutti gli elementi provenienti dalla tradizione plurisecolare della musica, che conosceva benissimo, avendo studiato, tra l’altro, e praticato, il violoncello in contesti cameristici e orchestrali (Los Angeles Junior Phil. Orchestra; orch. della Jordan High School), e avendo ascoltato e studiato ogni musica, in particolare quella sacra (gospel e spiritual alla Holiness Church, per es.) e classica (studiò con Herman Reinshagen, primo contrabbasso dell’Orch. Fil. di New York e composizione con Lloyd Reese) come la stragrande maggioranza dei musicisti di jazz di colore. [1]
La “long form” o “free form” a cui sembra riferirsi questo brano può essere messa in relazione con la forma DuchKomponiert; pare infatti che, a parte la prima Sezione del brano (Sez. A, si veda più in avanti), che risulta costruita su una struttura musicale tipica del jazz, e sulla quale pare adattarsi il testo, per la maggior parte del brano il compositore abbia invece seguito il testo, da se stesso scritto, e abbia adattato a questo la melodia; come se Mingus volesse in questo già rivelare una qualche relazione con un genere musicale (quale, anche questo verrà esposto più avanti) apparentemente estraneo alla tradizione del jazz per come la si conosce, e del tutto – apparentemente! – estraneo agli elementi tecnici compositivi che, superficialmente, “critici” e teorici del jazz pretendono di riconoscere e attraverso i quali pretendono di spiegare i fenomeni jazzistici.
In questo brano, infine, il riferimento alla musica di Ellington, altro grande cultore delle tradizioni europee e extraeuropee della musica jazz, è, com’è noto, esplicito nel titolo, e nel testo della canzone; inoltre appaiono, implicitamente, nel motivo del brano, almeno due spunti collegati in qualche modo a Duke: frasi e successioni di accordi presi da Lush Life (di Billy Strayhorn) e, in misura minore, da Star Crossed Lovers.
[1] In realtà, la stragrande maggioranza dei musicisti jazz di ogni tempo, da Armstrong a Monk, hanno studiato e conosciuto soprattutto la musica classica e la musica sacra; questo viene raramente sottolineato dalle superficiali biografie di oggi, che si basano ancora assurdamente su elementi mitici, folkloristici, che vogliono, ancora, il jazzista, soprattutto il nero, un istintivo puro, rabbioso, spesso ignorante perchè “puro” perché superiore (ma sempre ignorante, guarda caso): i critici e i “biografi” (specie europei) in realtà non rendono giustizia alla dimensione artistica, musicale, tecnica, culturale dei musicisti di cui sembrano prendere le difese. Così alcuni “biografi” sul grandissimo Lennie Tristano, o su Coltrane, Davis, Bill Evans, e persino W. Veltroni su Luca Flores: essi non citano praticamente mai un solo aspetto della musica di questi artisti, limitandosi, enfatizzandoli, agli aspetti più coloriti, o esoterici, o di costume, o psicologici della loro esperienza. Credo che questa sia in realtà una profonda manifestazione, invece, di indifendibile ignoranza musicale, tipica del nostro tempo, un tempo in cui la “cultura musicale diffusa” è ormai al lumicino; un’ignoranza mascherata con la pretesa affermazione dell’ importanza del “fattore umano”, o storico, o degli “aspetti sociali” di questo ramo della storia della musica, e che questo, nella realtà dei fatti, non giovi assolutamente alla musica, né al ricordo di quegli artisti. E’ incredibile la quantità di pagine di un libro su un musicista di jazz che puoi leggere oggi, specialmente in Italia, senza imparare una sola cosa sulla sua musica. Una bella eccezione in questo senso è rappresentata dal lavoro del musicologo Stefano Zenni, sempre attento ascoltatore, che tra l’altro, guarda caso, è anche pianista, e analista della musica jazz.