dal 20 al 30 aprile 2024
Direzione artistica Stefano Zenni
Vari Luoghi, fra cui Auditorium Giovanni Agnelli e Sala 500 (Lingotto), Hiroshima Mon Amour.
La dodicesima edizione del TJF, Torino Jazz Festival, con 104 appuntamenti di cui 57 concerti (gli altri divisi fra incontri cinematografici, mostre fotografiche e presentazioni di libri) e 73 luoghi coinvolti in tutta la città, dal 20 al 30 aprile, ha avuto un grande successo (un all sold out generalizzato) con un programma differenziato che ha spaziato in diversi generi del jazz attraverso nuove ed esclusive produzioni, dando spazio a veterani e giovani talenti internazionali e italiani. Il fitto programma lo si può trovare per intero qui: https://www.torinojazzfestival.it/programma-day-by-day/. Noi abbiamo seguito solo gli ultimi tre giorni e di questi solo gli appuntamenti principali.
Da sottolineare l’encomiabile celebrazione di Duke Ellington, a 50 anni dalla scomparsa, con vari concerti dedicati (ci dicono sia stato superlativo quello di Alexander Hawkins/Matt Wright) e la proiezione di tre film, in due dei quali la colonna sonora è stata scritta da Ellington (Paris Blues di Martin Ritt e U112–Assalto al Queen Mary di Jack Donohue), e uno, Steve e il Duca di Franco Maresco, con Steve Lacy che suona dieci brani ellingtoniani commissionatigli dal regista nel 1999. Di grande interesse anche i tre documentari su John Zorn realizzati dal 2010 al 2022 da Mathieu Amalric che hanno infiorato il ritorno del sassofonista e compositore newyorkese a Torino dopo tanti anni di assenza (nel suo complesso, una sezione cinematografica fra le più interessanti di quelle organizzate in Italia negli ultimi anni).
Zorn s’è presentato in forma smagliante il 28 aprile all’Auditorium Giovanni Agnelli del Lingotto con il New Masada Quartet formato, oltre che da lui al sax alto, da Julian Lage alla chitarra, Jorge Roeder al contrabbasso e il veterano batterista Kenny Wollesen, a fianco del leader da oltre trent’anni. S’è trattato di un Masada “ripensato” rispetto all’originale di decenni addietro, pur mantenendone le finalità e la poetica di base. L’esibizione è stata spettacolare e a tratti sconcertante per l’incalzare spasmodico e spiazzante delle varie situazioni e la loro bellezza. Zorn, come al solito, ha guidato da scafato conductor lo sviluppo di ogni brano in ogni passaggio, comandando con un sistema di diversi segni e segnali corporei (dita, mani braccia, espressioni del volto) concordati coi compagni (tutti formidabili musicisti), così determinando le entrate, le dinamiche, i solisti, i contrappunti, i call and response mozzafiato, i vorticosi inseguimenti, i cambi di tempo e ritmo, gli stop (moltissimi, con le corrispondenti riprese), che hanno reso convulso il procedere creando uno stato di gioia angosciosa. Con tale grande energia, precisione tecnica, totale controllo anche delle situazioni diventate più caotiche, la musica è sembrata essere qualcosa di simile a una betoniera agitata a pieno carico che di continuo si ferma e cambia rotta in un nanosecondo, una musica che non scaturisce più da azioni di causa ed effetto, che non contempla più l’antecedente e il conseguente, cambiando di rotta a capriccio del leader che porta al massimo possibile degli estremi la tecnica della conduction, in questo modo distruggendone la mistica. I duemila presenti sono andati letteralmente in visibilio con ovazioni da stadio.
Qualche ora prima, sempre al Lingotto, ma alla Sala 500, un altro grande del Novecento, il sassofonista Roscoe Mitchell, accompagnato dal batterista e percussionista Michele Rabbia, aveva offerto una musica di alta poesia. Non è stata la prima volta che Mitchell e Rabbia si sono esibiti insieme: una prova straordinaria fu quella a Padova nell’ottobre 2016 per il Centro d’Arte. Rispetto ad allora s’è mantenuta intatta l’attenta e concentrata intesa fra i due maestri, ma allontanandosi l’un l’altro nelle sonorità, perché Mitchell s’è dedicato soprattutto al sassofono basso, uno strumento imponente fissato con un supporto sull’impiantito, che produce note gravi che portano verso il fondo, mentre Rabbia ha aleggiato verso l’alto con suoni più sottili attraverso una serie di percussioni le più varie (anche sacchetti di plastica strofinati vicino al microfono) o percuotendo la batteria morbidamente con un fascio di tubi di plastica. Senza soluzione di continuità sono andati avanti per quasi un’ora (prima dei due brevi bis), Rabbia in perfetta complementarietà con il compagno, infittendo o diradando la tessitura timbrica a seconda dei momenti (a volte anche in contrasto); Mitchell con lunghi, inesausti, iterativi assolo in completa libertà, passando anche al soprano ricurvo (con questo pigolando lungamente sugli acuti), non più eruttivi e ipnotici come in prove precedenti, ma diradando l’eloquio, spaziando le note e sempre con l’uso della respirazione circolare e lo sdoppiamento dei suoni emessi contemporaneamente.
Diversa impostazione, seppure anch’essa arrivata sull’onda lunga del free storico, è stata quella di The End Featuring Mats Gustafsson, gruppo che s’è presentato a Hiroshima Mon Amour senza il preannunciato sassofonista Kjetil Møster e con un differente bassista/chitarrista. Alla fine d’un brano, Gustafsson ha detto: “jazz is dead; or maybe there is some shit left to do”; ma “la roba che c’è ancora da fare” non sembrerebbe essere quella da lui proposta, perché di novità non è che ne abbia offerta molta, basandosi il tutto sulle istanze del free più furioso (Archie Shepp), mescolate a quelle dell’heavy rock (Black Sabbath) e, creando oasi più placide, a quelle del folk nordico. A parte questo, la musica di The End, con in prima linea Gustafsson che urla al sax baritono e tenore e l’eccellente cantante Sofia Jernberg che pure strilla e urla e declama lunghe poesie (entrambi passando attraverso vari stili, arrivando anche a momenti di apparente pacifica serenità), è stata di grande impatto emotivo, a tratti inquietante, alternando suoni oscuri, contorti ed esplosivi ad altri mistici, rilassati e meditativi, sostenuti dalla potente batteria di Børge Fjordheim.
Il 30, giorno conclusivo del festival, ha visto nel tardo pomeriggio un ensemble di sette strumentisti e tre cantanti guidato dal vocalist figlio d’arte Eric Mingus e dalla contrabbassista e compositrice Silvia Bolognesi, che hanno costruito un recital misto di canti gospelizzanti, spoken word, hip hop, e musica pop inframezzati da interventi solistici jazz, un recital imperniato sulla figura dello scrittore, musicista, compositore ed attivista afroamericano Gil Scott-Heron (il nome del gruppo, Is That Jazz?, è preso da una sua composizione). Facendo dei collegamenti continui al testo di Revolution Will Not Be Televised, un o dei brani più celebri di Scott-Heron, la musica, pur divisa in parti, procede senza soluzione di continuità con impeto, foga, qualche fragore e qualche morbidezza, ben costruita e ottimamente suonata.
Il festival ha chiuso in bellezza all’Auditorium Giovanni Agnelli con il trombettista Paolo Fresu alla guida del suo storico quintetto (che ha compiuto quarant’anni di attività), formato da Tino Tracanna ai sassofoni tenore e soprano, Roberto Cipelli al piano, Attilio Zanchi al contrabbasso ed Ettore Fioravanti alla batteria, quintetto accompagnato dalla Torino Jazz Orchestra diretta da Paolo Silvestri, che pure ha scritto per l’occasione le partiture. “Repens” è il titolo dato al progetto, riprendendo quello dato a uno dei tre dischi in uscita in box per la Tuk, dove il quintetto improvvisa in totale libertà, senza nessuna parte scritta. Il compito affidato a Silvestri è stato quello di “elaborare, a partire dalle musiche ancora inedite di “Repens”, una partitura da affidare al quintetto e alla Torino Jazz Orchestra”. Ne sono risultate orchestrazioni complesse, turgide, magniloquenti, giocate sui contrasti ritmici e timbrici, su armonizzazioni estese, sulla variazione degli scenari, ogni tanto facendo capolino sovrapposizioni armoniche dissonanti, il tutto ricordando a sprazzi Charles Mingus, Gil Evans e Stan Kenton, oltre che i Mike Webstrook ed Hermeto Pascoal orchestrali, con vaghi echeggiamenti a Xenakis, e che si distende in movimenti swingati quando entra in gioco il quintetto. Sulla navigata e solida sezione ritmica (Cipelli-Zanchi-Fioravanti), Fresu e Tracanna, da par loro, sviluppano assolo che ben si inseriscono nel contesto orchestrale e al contempo ne vengono sostenuti e spinti (ma sembra più che siano i solisti a coadiuvare l’orchestra piuttosto del contrario). Grande prova anche dell’orchestra formata da tredici eccellenti musicisti (solo tre nomi, a rappresentare tutti: il sassofonista Fulvio Albano, il trombettista Andrea Tofanelli e il trombonista Luca Begonia), ben diretta dallo stesso Silvestri. Il quintetto ha poi concesso due bis senza il supporto della compagine orchestrale. Tripudio anche in questa occasione dell’auditorium all sold out.