24-28 ottobre 2024
Quarantesima edizione dello storico festival serbo diretto da Vojislav Pantic. Cinque giorni intensi, sedici concerti nei consueti spazi della MTS Dvorana e della Dom Omladine, sei showcase serbi, un programma più che mai ricco, interessante, stimolante.
Mainstream
La Big Band RTS diretta da Alan Broadbent, From Newport to Belgrade: emozionante ascoltare, a dirigere l’ampia compagine orchestrale di Radio Belgrado, un nome storico del jazz, il neozelandese Alan Broadbent, già arrangiatore e pianista di Woody Herman, in un concerto di brillante classicità, condotto sapientemente attraverso la sua sagace competenza di arrangiatore, e impreziosito dai due ospiti, il pianista croato Matija Dedić e il nostro Gianluca Petrella, particolarmente apprezzato da Broadbent, dall’orchestra e dal pubblico per i suoi preziosi interventi solistici.
Il quintetto del sassofonista tenore James Carter (Satish Robertson-tromba; Gerard Gibbs-pianoforte; Hilliard Green-contrabbasso; b-batteria), nel suo tributo a Eddie Lockjaw Davis, un omaggio basato sul virtuosismo del leader e dei partner, un hardbop tecnicamente fulminante, ma nella sostanza a lungo andare piuttosto datato.
The Voice
Riascoltare, a distanza di una settimana esatta, Cecile McLorin Salvant alla testa del suo gruppo (Sullivan Fortner-pianoforte; Yasushi Nakamura-contrabbasso; Kyle Poole-batteria) è stato illuminante: l’artista ha effettuato diversi cambiamenti nel repertorio, eseguendo anche sue composizioni originali, ma laddove ha ripetuto brani già eseguiti a Skopje li ha modificati radicalmente, dimostrando una fantasia e una creatività senza pari, grazie anche alla magica intesa col pianista e con gli altri partner. Così è stato per Wuthering Heits, Until di Sting, Barbara Song di Brecht-Weill. A Belgrado ha anche cantato in francese e in portoghese, con una versione della jobimiana Retrato em branco e preto da antologia. Non bastano gli aggettivi per elogiare questa artista, ma aggiungerei a quanto scritto in precedenza nella recensione del festival di Skopje la sua versatilità interpretativa, da attrice e non soltanto da interprete vocale.
Brasil
Due ottimi omaggi al Brasile nella stessa serata, in due diversi spazi della Dom Omladine. Il Quartetinho della clarinettista Anat Cohen (Vitor Gonçalves piano, tastiera e fisarmonica; Tai Mashiach contrabbasso e chitarra; James Shipp batteria, percussioni e vibrafono) in un set semplicemente delizioso, con la leader che ha utilizzato anche il clarinetto basso in una suggestiva versione di Going Home, tratta da Dvorak. Un quartetto affiatato, con due registrazioni all’attivo («Quartetinho» del 2022 e «Bloom» del 2024). Repertorio fresco e gioioso, che comprendeva oltre a ottimi brani originali Frevo di Gismonti, Trinkle, Tinkle di Monk, tutti eseguiti da un gruppo formidabile, nel solco della tradizione ma mai banale, in un’atmosfera festosa e trascinante.
Quartabê il nome del quartetto carioca composto da Maria Beraldo (clarinetto e clarinetto basso), Filipe Nader (alto e clarinetto basso), Mariá Portugal (batteria) e Chicão (pianoforte e tastiere). I quattro ripropongono le musiche di Dorival Caymmi attualizzandole con estrema creatività, in una festosa atmosfera ricca di improvvisazione jazzistica, uso corale delle voci, e una contagiosa solarità, nonostante l’ora tarda dell’esibizione.
Jazz serbo
Lo studio 6 della Radio RTS ha ospitato Serbian Showcase, la rassegna – destinata solo ai giornalisti ma diffusa via radio – dei giovani gruppi serbi, scelti da una giuria tra 26 partecipanti, a condizione che avessero registrato almeno un album negli ultimi tre anni. Un’importante testimonianza dello stato dell’arte del jazz nella Serbia odierna, che ha visto sfilare in due giornate sei formazioni: il quintetto del vocalist Viktor Tumbas, una voce bella e personale; il dinamico quartetto Drumbooty, guidato dal batterista Peda Milutinović, un gruppo fusion fresco ed efficace; Schime, l’ottimo quartetto capitanato dall’altosassofonista Luka Ignjatović; il quartetto dell’eclettico trombettista Ivan Radivojević, nel cui fraseggio si ascolta anche la lezione di Enrico Rava; il quintetto della flautista Milena Jančurić, che reca nella sua musica le sue fruttuose esperienze di studio negli Stati Uniti; il trio del bassista Uroš Spasojević, ricco di suggestioni e atmosfere ambient. Una bella testimonianza dell’ottimo stato di salute del jazz serbo che, in assenza di case discografiche locali, gode di una visibilità discografica grazie all’etichetta italiana A.MA Records.
Ma il pubblico del festival ha potuto anche ascoltare il concerto dei Serbian All Stars: past, present and future. Un quartetto di base composto da Luka Ignjatović, Dragar Kalina al pianoforte, Milan Nikolić al contrabbasso e Alexander Cvetković alla batteria, che ha via via ospitato altri musicisti serbi: Milena Jančurić, Ivan Radivojević, il sassofonista Rastko Obradović, il contrabbassista Miloš Čolović. Basandosi inizialmente sul linguaggio comune dell’hardbop ma successivamente ampliando gli stili, il gruppo ha ospitato i diversi solisti, testimoniando sul palco la vitalità di una scena musicale che non manca di rinnovarsi, grazie a giovani risorse formatesi all’estero che hanno scelto di svolgere la loro carriera musicale in Serbia.
Petrella
Gianluca Petrella merita uno spazio a sé. Con il suo Cosmic Reinassance (Mirco Rubegni-tromba; Riccardo Di Vinci-basso elettrico; Simone Padovani-percussioni; Federico Scettri-batteria) ha infatti suonato un set formidabile, che ha lasciato un segno indelebile nella storia di questo prestigioso festival. Il suo trombone, dal suono potente, insieme alle tastiere e all’elettronica, la fervente energia della sezione ritmica, l’apporto del trombettista fanno di questo gruppo, il cui nome risulta quanto mai appropriato, una trascinante forza che sembra provenire da distanze interstellari. Petrella ha inglobato in sé il linguaggio dell’Arkestra di Sun Ra attualizzandolo e rendendolo più che mai vivo e presente. Una dose di vitalissima energia, fuori da stili e clichè.
L’Europa
Non poteva non sorprendere il sassofonista soprano Émile Parisien, alla testa del suo quartetto (Julien Tourey-pianoforte; Ivan Gélugne-contrabbasso e Julien Loutelier-batteria). Formazione agguerrita, con il giovanissimo sorprendente batterista in primo piano e il leader scatenato che si prodigava in brucianti assolo, talvolta utilizzando anche degli effetti.
Dall’Austria, l’apprezzato quartetto Kompost 3 (Martin Eberle-tromba; Benny Omerzell-pianoforte, tastiere; Manu Mayr-contrabbasso; Lukas König-batteria), ha convinto con i suoi consolidati equilibri interni, la sua concezione musicale pienamente contemporanea, una delle belle vitali espressioni dell’odierna scena europea.
Altrettanto bella e vitale la proposta del trio del sassofonista tedesco Daniel Erdmann Velvet Revolution (Theo Ceccaldi-violino e Jim Hart-vibrafono). Questo trio, uno dei progetti più riusciti dell’attivissimo Erdmann, valorizza al meglio le tre diverse personalità musicali in campo, dando a ciascuno modo di suonare alternativamente i propri assolo sull’accompagnamento dei partner, e il repertorio di composizioni originali dei tre risulta vario, gradevole ed efficace.
Legato all’estetica free (ma collocato entro precise strutture) il sassofonista tenore portoghese Rodrigo Amado (con The Attic: Gonçalo Almeida al contrabbasso e Onno Govaert alla batteria), in un notturno confronto con la sua validissima ritmica ha eseguito un buon set con il suo suono corposo e il bel fraseggio.
Ellingtonia
“Tonight I’m gonna try to climb this mountain that is Duke Ellington. Duke Ellington is a high mountain to climb alone, but you all be with me.” È iniziato con queste belle significative parole il concerto per pianoforte solo dedicato da Jason Moran (in precedenza a Belgrado con Charles Lloyd) a Ellington. E l’ha scalata, la montagna, come meglio non si potrebbe. Le sue riletture di alcuni capolavori del Duca e di Billy Strayhorn lasciano il segno, per inventiva pur nel pieno rispetto dell’originale, per perizia esecutiva, per una mirabile lunga meditazione cromatica sul registro basso della tastiera che improvvisamente torna alla luce del tema, per l’intenso blues feeling, per il sentito romanticismo. Vale la pena ricordare la scaletta: Black and Tan Fantasy, I Got it Bad, Reflections in D, Melancholia, It don’t Mean a Thing, Dancers in Love, Lotus Blossom, A Single Petal of Rose. Ai capolavori ellingtoniani Moran ha aggiunto una sua composizione, Barber Shop, davvero particolare e rimarchevole nella sua struttura martellante che sfociava in un magnifico blues. Pubblico e critica osannanti, ovviamente.
USA Today
L’attuale quartetto di Bill Frisell Four (con Greg Tardy-tenore e clarinetto; Gerald Clayton-pianoforte; Johnathan Blake-batteria), attivo dal 2022, ha raggiunto una dimensione di classicità. Rodata da innumerevoli concerti, la formazione vanta equilibri mirabili, e Frisell lascia ampio spazio ai partner, mentre i suoi interventi sono tutti nel segno della delicatezza, con quel tratto gentile che negli anni recenti lo contraddistingue. Attingendo al suo splendido repertorio di brani originali (Monroe) ma non trascurando Monk, Ellington e Bacharach, senza soluzioni di continuità come spesso accade, utilizzando momenti improvvisativi come legante, un’ennesima testimonianza della gigantesca statura artistica del sorridente Beautiful Dreamer.
Hero Trio è il nome del gruppo del sassofonista Rudresh Mahanthappa, che incrociava il suo alto con il contrabbasso di Phil Donkin e la batteria di Tim Angulo. Insieme restituiscono l’immagine del jazz odierno a New York, in un aspetto che ricorda, come evidenziato dallo stesso leader, alcuni storici pianoless trio quali quelli di Rollins nel Live at Village Vanguard, di Ornette nel Live at The Golden Circle e di Lee Konitz Motion. Un repertorio che andava da Charlie Parker a Stevie Wonder, Johnny Cash, George Michael, Pat Metheny, The Wind Up di Jarrett, rivisitati e resi più che mai avanzati e contemporanei, con l’agguerritissima ritmica che sosteneva le volate solistiche del leader con palese creatività, rendendo ogni brano fresco e attuale.
Altra importante realtà newyorchese è il quartetto Diatom Ribbons della pianista Kris Davis (Val Jeanty-turnables, elettronica; Nick Dunston-contrabbasso e basso elettrico; Terri Lyne Carrington-batteria). Accostando brani originali a Ronald Shannon Jackson, Wayne Shorter, Geri Allen, il gruppo si muove compatto e convincente, con varietà di atmosfere, valorizzando le note doti di Davis e Carrington, sulla base ritmico armonica delle corde di Dunston e avvalendosi dell’apporto come sempre essenziale e creativo di Val Jeanty. Un quartetto potente, che ha una sua precisa riconoscibilità e cifra stilistica, costantemente vitale, con la pianista che si alternava al pianoforte e al piano elettrico, opportunamente stimolata dall’incisivo drumming di Carrington.
Finale danzante e festoso affidato ai Buena Vista All Stars, tra son e bolero, rivisitando alcune hit del passato.