Scriviamo questo articolo a distanza di un anno dalla morte di Steve Paxton, avvenuta il 21 febbraio del 2024. Sono previsti, inoltre, a livello internazionale, nuovi e doverosi omaggi grazie ai quali sarà possibile approntare diverse retrospettive, con l’intento di ridisegnare i tratti salienti di una ricerca integralmente incentrata sul movimento e sul corpo. Sarà così possibile continuare a riflettere adeguatamente sul lascito di Paxton in termini artistici ed esperienziali.
Si tratta, in effetti, di un lascito che contiene numerose ipotesi innovative, concernenti il lavoro fisico-corporeo, visto in virtù delle sue intrinseche relazioni con lo spazio, senza dimenticare le possibili estensioni proiettate verso una dimensione propriamente sociale.
Scorrendo alcune riviste di area francese e francofona come, ad esempio, il numero 85 del Journal de danse, si può trovare un doppio tributo, teso a omaggiare significativamente – e doverosamente – il coreografo statunitense. Da una parte l’articolo intitolato Steve Paxton la vulnérabilité du toucher di Annie Suquet e, dall’altra, un contributo a firma di Emma Bigé intitolato In memoriam: Steve Paxton (1939-2024).
Suquet, sin dal titolo, ci consegna una particolare suggestione, che riguarda proprio la vulnerabilità del tocco e, più propriamente, del contatto. Il gesto del toccare, nella danza ma anche a livello esperienziale, racchiude d’altra parte una miriade di valenze e di sfumature. Con evidenza Steve Paxton affronta la tematica del contatto in modo circoscritto e determinante. Con dovizia di particolari Suquet ci ricorda come, durante gli anni ’70, la contact improvisation abbia rappresentato un vettore importante per una disseminazione e condivisione dei valori e delle pratiche contestatarie e delle condotte sperimentali coltivate dalla postmodern dance. Anche i tragitti musicali andavano conoscendo, di pari passo, un’emancipazione sostanziale, spingendosi verso un parziale o integrale allontanamento dalla predeterminazione. L’itinerario ha inizio nel mese di giugno del 1972 a SoHo, dove la giovane galleria Weber Gallery accoglie una performance di danza di un genere del tutto nuovo, senza precedenti riferimenti. Nel corso di cinque giorni di fila e per una durata di cinque ore per giorno, diciassette danzatori e danzatrici, riuniti su iniziativa di Steve Paxton, per l’appunto, si apprestano a testare in diretta una pratica di improvvisazione fondamentalmente basata su interazioni in duo. La nuova pratica, denudata di qualsivoglia riferimento al vocabolario coreografico e stilistico preesistente, si propone dunque di esplorare i diversi modi in cui i due corpi coinvolti possono stabilire e ingaggiare un contatto diretto e mettersi reciprocamente in movimento grazie allo scambio dei loro piedi. In una sala, in fondo alla quale vengono proiettati dei film sperimentali di George Manupelli, i vari danzatori e danzatrici in duo si muovono su un tappeto da ginnastica. Nessun effetto di luci è presente, nessun costume o musica nella fattispecie. Il pubblico è libero di entrare e uscire, di restare qualche minuto o permanere per intere ore, di visionare in parte o integralmente i film, le installazioni e la performance. Dei movimenti catturati in video da Steve Christiansen mostrano i danzatori che in coppia si lanciano l’uno verso l’altro e, a turno, si afferrano, si supportano e si sostengono, si lasciano portare mobilizzando le masse dei loro corpi per suscitare un gioco di interscambi dove acquistano un particolare rilievo i piedi. I protagonisti e le protagoniste delle azioni si lasciano andare nella caduta, per ricreare uno slancio immediatamente successivo. Un vero gioco sinergico, un’attivazione di energie nella reciprocità più conclamata, seppur offerta e determinata dai giochi mutevoli dati dall’estemporaneità.
Un’estemporaneità da vedersi come risorsa e come vettore indispensabile per l’emergere dei circuiti danzati e per l’attivazione dei flussi corporei veri e propri. Stava particolarmente a cuore a Steve Paxton l’idea di smantellare il rapporto gerarchico tradizionalmente instaurato tra coreografo e interprete. Come già ricordato questo avviene anche nelle prassi sonore attraverso delle ricerche per lo più coeve. Numerosi sono gli esempi e le prove di disattivazione delle dinamiche collegate propriamente con la scrittura. Restando tuttavia nel territorio della danza può considerarsi imprescindibile anche una sommaria rilettura del volume intitolato Trisha Brown. di cui è autrice Rossella Mazzaglia (L’Epos). Come per Steve Paxton anche per Trisha Brown siamo certamente di fronte a “sentieri ridefiniti” (totalmente ridefiniti). Mazzaglia ci ricorda come la parola-chiave sia stata “cambiamento” e sete di scoperta, o meglio, sete di sorprendersi di continue nuove scoperte, “per consentire all’inaspettato di insinuarsi in una progettualità rigorosa, comunque memore delle soluzioni più vitali derivate dai lunghi anni di sperimentazione“. L’emergere dell’inaspettato diviene dunque il presupposto e il parametro ineludibile per dar luogo a soluzioni vitali. Le metamorfosi profonde a cui stiamo facendo riferimento si sono incuneate nelle trasformazioni sociali e culturali del tempo. Le forme di libertà offerte al corpo danzante hanno agevolato il metodo interdisciplinare. La ricerca personale sul movimento ha innescato accensioni ed elaborazioni di cui ora non si può non far tesoro.
Leggiamo a pag.24-25 del libro su citato e incentrato sulla Brown, sempre a proposito della qualità delle sessioni improvvisative: “Altre figure che gravitano attorno a queste sessioni sono Yvonne Rainer e Steve Paxton. In particolare, la visione delle improvvisazioni di Simone Forti, Trisha Brown e Yvonne Rainer è determinante per Paxton, che negli anni ’70 darà vita a una nuova importante pratica di danza basata sull’improvvisazione, la contact improvisation.”
E, a seguire, emergono con chiarezza le parole emozionanti di Steve in persona, il quale rievoca i momenti caldi, la complicità e la bellezza di poter vedere con occhi diversi:
“Senza questi esempi, questi buoni esempi, dubito che l’improvvisazione mi sarebbe mai interessata, e gli ultimi 33 anni – scrive nel 2001 – sarebbero stati diversi. Erano momenti caldi e mi incuriosivano. Cosa facevano? Costruivano, momento per momento, le loro sensazioni e le loro idee in un miscuglio esaltante che attraversava come un turbine il tempo, catalizzato dalla nostra complicità e dal nostro sguardo. Vedevamo con occhi nuovi“.
Si tratta di una magnifica, seppur sintetica, ricostruzione, dove l’aspetto del tempo (l’immagine è quella di un tempo catalizzatore) ci avvince e ci proietta in un’ipotesi di ricerca in cui poter scorgere un forte valore fermentativo. Alla “costruzione momento per momento” è dedicato tutto il sentiero di ricerca. A pag.39 viene brevemente rievocato Lightfall, duo realizzato da Brown e Paxton. Ciò che il titolo sta ad indicare è una caduta leggera: la posizione di base è quella dei giocatori di football americano, ma di lì i danzatori sviluppano interazioni fisiche definite “incursioni giocose e spontanee in un’attesa pacata di inusuali sorprese”. I salti l’uno sull’altra e il ritrovarsi in alternanza rispetto all’idea di supporto reciproco costituiscono i prodromi della contact, per l’appunto. Anche la ridefinizione del rapporto con il suolo diviene parte integrante del percorso esperienziale e teorico. Così come la necessità di non formalizzare le pratiche e i percorsi. In relazione a questa fase evolutiva della danza – che potrà essere agevolemente posta in connessione con i percorsi altrettanto evolutivi riguardanti le pratiche musicali – mi piace pensare al manifestarsi del “volto della fiducia”. La fiducia ha infatti un volto e una presenza, a volte anche determinante.
Nel caso delle esperienze di Paxton essa viene nettamente portata alla ribalta e, soprattutto, messa alla prova in modo esplicito e conclamato. La fiducia di cui stiamo parlando va a riguardare e ad avvolgere gli individui variamente coinvolti (in primis danzatrici e danzatori) ma indubbiamente anche il pubblico, volta per volta catturato nel turbinio di interazioni o nei grovigli proficui determinati dalle interconnessioni e dagli accadimenti in atto. In ogni caso la fiducia emergente, proprio in quel lasso di tempo, ruotava – e a ben vedere può continuare a ruotare e, perché no, potenzialmente vibrare- intorno ai concetti di evoluzione e di libertà dai modelli estetici. Questi contenuti non cessano infatti di essere interrogati e motivati anche nell’oggi. Tra flussi improvvisativi e ipotesi vagamente o radicalmente ricostruttive il tempo può arrivare a mostrarci delle nuove e inedite diluizioni o delle inaspettate affermazioni, alias attestazioni del vivente.