dal 17 al 20 marzo 2022
Foto di Elena Carminati
Nelle bellissime fotografie di Elena Carminati a corredo di queste note sul quarantatreesimo Festival jazz di Bergamo mancano quelle del pianista Brad Mehldau, che ha costituito il clou dei concerti principali al Teatro Donizetti, rimesso splendidamente a nuovo dopo anni di lavori di restauro.
Mancano le sue foto, perché è stato vietato farle, divieto voluto dallo stesso pianista, che ha pure imposto d’essere l’unico richiamo della serata, invece della consueta esibizione di due differenti artisti. Anche questi sono tasselli che contribuiscono a costruire il “suo” personaggio, quello d’antan dell’artista romantico avviluppato nei suoi pensieri solo musicali, distaccato dal mondo e freddamente impassibile verso il pubblico, al cospetto del quale non esterna sentimenti (mai il minimo sorriso, neanche durante le osannanti standing ovation nei bis), ed esibendo durante la performance un sofferto sdilinquimento nei gesti del corpo e qualche eccentricità, come lo sgabello più basso dell’usuale, o la scaletta dei brani da eseguire appuntati su foglietti lasciati volutamente disordinati su un panchetto. Schivo e introverso Mehldau lo è sempre stato, ma ora sembrerebbe che tutto sia studiato per alzare un muro fra sé e l’uditorio, o perlomeno da esso isolarsi per potersi concentrare unicamente sulla sua arte (la religione dell’arte e l’arte come religione sono proprie del romanticismo) arrivando, con atteggiamenti e modi espressivi ormai fuori dal tempo, a una specie di “monoideismo” del misticismo estetico; a proposito di muri, è proprio il contrario di Roger Waters per il quale “The wall“, celeberrimo, era solo un grande cruccio e desiderava fortemente toglierlo di mezzo. Anche la musica rispecchia la figura dell’artista romantico, quasi decadente, che Mehldau s’è costruito, mettendo a punto un eloquio estatico (che naturalmente non vuole dire statico), pieno di arzigogolii raffinati e sviluppi complicati da cui sembra bandito lo swing, recuperando le cadenze, il tocco, i procedimenti propri delle esecuzioni concertistiche di musica classica. Una volta si usava dire, come motteggio, che per individuare chi capisca o meno di jazz bisogna sapere se le sue preferenze cadano sui Rolling Stones (che si rifanno al blues e al rhythm and blues) o sui Beatles (che si rifanno al twist e alla musica folk irlandese): ebbene Mehldau (e lo si dice solo come constatazione di fatto, senza alcuna pretesa di giudizio di valore) ha presentato un repertorio zeppo di canzoni dei Beatles, quintessenze della canzone pop, oltre che di altri artisti affini (Radiohead, Neil Young) come a ribadire la presa di distanza dalla specifica espressività della musica afro-americana.
Lo strepitoso successo di Mehldau ha accomunato anche i concerti delle varie sezioni in cui è diviso il festival (allestito sotto l’egida della Fondazione Teatro Donizetti), come consuetudine ritornato a chiudere l’inverno e ad aprire le porte alla primavera dopo gli scombussolamenti derivati dalla pandemia di covid-19: c’è il festival vero e proprio, che si svolge principalmente nei teatri Donizetti e Sociale, e c’è la sezione “Jazz in Città” in vari altri posti cittadini, specialmente all’Auditorium, entrambi sotto la direzione artistica di Maria Pia De Vito; inoltre è stato organizzato il cosiddetto “piccolo festival nel grande festival”, con una propria autonomia, “Scintille di Jazz“, in luoghi più periferici, ma sempre cittadini, diretto da Tino Tracanna, concentratosi soprattutto su giovani talentuosi artisti italiani.
Oltre a Mehldau, che ha suonato con maestria facendo risaltare continue invenzioni melodiche fra ornamentazioni, abbellimenti, contrappunti e variazioni metriche, sono stati presentati altri tre fra i più acclamati e rappresentativi pianisti d’oggidì: Fred Hersch, Vijay Iyer e Gonzalo Rubalcaba (quest’ultimo non ascoltato dall’estensore di queste note).
Fred Hersch, accompagnato dai formidabili Drew Grass al contrabbasso e Joey Baron alla batteria e con il trombettista Enrico Rava come “special guest”, ha presentato, rispetto a Mehldau, un diverso modo di allontanarsi dal loro comune principale ispiratore, Bill Evans: Hersch, resistente alle derive romanticheggianti, mantiene costante un’allure melanconica che sfocia nella tenerezza attraverso un’eloquenza pacata e persuasiva, contorta e insinuante, sempre “in consonanza” e adeguandosi alle tonalità, al massimo forzandole senza tracimare gli argini. Rava, al flicorno, che negli ultimi anni predilige alla tromba, s’è divertito a rispondere alle preziose stimolanti provocazioni armoniche del pianista, prima cercando di arginarle col suo avvincente melodismo, in seguito assecondandole, sempre riuscendo a dare una sorpresa, un guizzo che incanta.
Dei tre, Vijay Iyer è sempre stato il più radicale, portato a un pianismo che dal romanticismo (per rimanere in tema) rifugge totalmente, ciò comportando asetticità del tocco, uso ponderato e icastico delle linee melodiche, dove impera la logica, addirittura una logica matematica, bandendo le effusioni sentimentali. Nella sua esibizione bergamasca con un nuovo trio comprendente Matt Brewer al contrabbasso e Jeremy Dutton alla batteria, eseguendo una sorta di lunga suite con i brani uniti senza soluzione di continuità, ha acquistato, rispetto al suo passato, densità armonica e impeto espressivo, con maggiore coinvolgimento emotivo nel lungo maelstrom improvvisato con innervante inesausta fantasia. S’è avvicinato al mainstream (Andrew Hill e McCoy Tyner) attraverso intrecci di incalzanti figurazioni che viaggiano su ondulati territori politonali, varie temperate complessità, serrati lucidi melodismi, creando un affresco cupo e inquieto, spogliato da qualsiasi orpello di retorica.
Il festival ha incluso anche episodi di musica sperimentale. Affascinante il concerto pieno di poesia e suggestione del duo Star Splitter formato da Rob Mazurek e Gabriele Mitelli, il primo alla tromba e alla pocket trumpet, il secondo alla cornetta e al saxello. Hanno suonato con l’aiuto di varie elettroniche usate anche con la tecnica di overdubbing e con diversi strumenti a percussione, soprattutto campanellini, campanacci e sonagli, inoltre usando la voce sillabando grida d’invocazione. Si è creata così un’arcana atmosfera d’attesa in una specie di rituale sciamanico che ha visto i due trombettisti improvvisare alternandosi e rispondendosi e anche sovrapponendosi nella più completa libertà, ma perfettamente in consonanza con il contesto realizzato, sembrando a volte Wadada Leo Smith, altre Bill Dixon, o Don Cherry, o Lester Bowie, o tutti e quattro insieme.
Sperimentale si può considerare anche la musica dell‘Inner Hidden, quintetto di recente costituzione diretto dal violinista francese Régis Huby e forte delle presenze del contrabbassista connazionale Claude Tchamitchian, del trombettista inglese Tom Arthurs, del chitarrista scandinavo Eivind Aaarset e del batterista italiano Michele Rabbia. Sperimentale, pur non essendoci suoni esoterici che non rientrino nella configurazione tonale presentata, perché si avverte che non basta fruire la musica nel suo divenire per dare una valutazione e apprezzarla appieno, quindi diacronicamente, ma che alla fine occorre astrarsi per avere una visione pittorica di quanto accaduto, sincronicamente, come dopo avere assistito a una sorta di action painting. Le dinamiche spaziano dai “pianissimo” ai “forte”, spesso usando accumuli lenti e progressivi di materiale, il tutto rifacendosi ad atmosfere etniche del nord Europa, i musicisti dando prova sia come solisti che come accompagnatori di eccelsa tecnica e integrandosi perfettamente al servizio della musica proposta, impiegando l’elettronica in modo discreto e funzionale.
Ava Mendoza in solitudine alla chitarra elettrica, con la leva del tremolo e la pedaliera con al completo gli artifici per gli effetti di cambiamento del suono adoperati con duttile sapienza, è stata artefice di una musica che mescola sonorità avant-garde prese più dal mondo del rock sperimentale che dal jazz, sempre con il distorsore in funzione, rimanendo nell’alveo degli accordi sì dissonanti, ma senza sconfinare nel puro noise. Musica potente, energica, dark, che ha forti agganci con il blues.
L’altro chitarrista Jakob Bro, danese, s’è presentato in trio col trombettista norvegese Arve Henriksen e il batterista spagnolo Jorge Rossy. Lui, che pur ha frequentato sonorità rock, da tempo, e qui lo ha confermato, s’è avvicinato ai modi di certa fusion estatica, di certa elettronica riverberante e distorta e soprattutto alle istanze della musica folklorica scandinava, sviluppando una world music a tratti quasi ambient, esplicitando suoni raffinati ed eterei, galleggianti come ninfee in acque stagnanti. È un lungo set senza ritmo, tanto che Rossy si limita a dare scarne e impalpabili coloriture e Henriksen si adegua effondendo suoni dall’uniforme ed estenuante pacatezza, che Bro raccoglie nelle maglie della sua ragnatela diradata e sospesa, lentissimamente ondeggiante.
Il mainstream è stato ben rappresentato dai gruppi di due batteristi, il Fairgrounds di Jeff Ballard e il quartetto di Roberto Gatto.
Ballard (ex trio di Mehldau) s’è unito al sassofonista Logan Richardson, al chitarrista Charles Altura e al contrabbassista Joe Sanders che insieme scombussolano creando fascino, perché hanno stili non uniformi che riescono bellamente a far convivere: la batteria di Ballard è più esuberante rispetto al più regolare contrabbasso di Sanders, e la chitarra di Altura è più placida ed elegante rispetto alla esuberanza materica del sassofono alto di Richardson. Quest’ultimo ha attirato l’attenzione per la grande espressività di un fraseggio infarcito di Charlie Parker, di Ornette Coleman e di blues e per il suono penetrante delle sue inquietanti grida lamentose.
Il quartetto di Roberto Gatto è impostato sui canoni classici del jazz, basandosi su un repertorio di varie provenienze, sia jazz che pop. La forte tessitura ritmica e la propulsione di Gatto, ben coadiuvato dal calibrato e potente contrabbasso di Matteo Bortone, crea una base sicura per le esplorazioni solistiche di due fra i più interessanti giovani jazzisti italiani: il trombettista Alessandro Presti, che ha un fraseggio articolato e flessibile con una bella e piena sonorità; e il pianista Alessandro Lanzoni, che manovra saggiamente, compenetrandole, cantabili linee melodiche e armonizzazioni piene di preziosismi.
Se non fosse per il veterano Gatto, il suo quartetto avrebbe potuto fare parte honoris causa della sezione curata da Tino Tracanna “Scintille di Jazz“, dedicata ai giovani talenti italiani. Dei cinque concerti in programma, abbiamo potuto seguirne solo due.
Il Portrait In Two Colors del duo formato da Marco Pasinetti alla chitarra e Guido Bombardieri al sax alto, soprano e clarinetto basso ha eseguito propri sagaci e felici arrangiamenti di brani di Charlie Mingus, mantenendone lo spirito nonostante la difficoltà dovuta alla formazione ridotta.
Federico Calcagno & The Dolphian hanno potuto invece giostrare con maggiori possibilità di scelta con composizioni e arrangiamenti dello stesso Calcagno per sei strumenti: i clarinetti del leader, il sax alto di Gianluca Zanello, il sax tenore di Luca Ceribelli, il vibrafono di Andrea Mellace, il contrabbasso di Stefano Zambon e la batteria di Stefano Grasso. L’ispirazione originaria è la musica di Eric Dolphy (il loro primo disco è composto da brani di Dolphy arrangiati), della quale mantengono i crismi anche nei nuovi brani originali presentati per l’occasione. Quindi sonorità acri, tempi dispari, articolazioni sghembe con ampi salti intervallari, sovrapposizioni di sezioni e di singoli strumenti in diverse e fantasiose maniere, sempre sorprendenti, il tutto suonato, compresi gli assolo ben inseriti nella struttura generale, con grande carica swingante.
PS: Non si è parlato, perché non ascoltati, dei concerti del Nicolò Ricci Trio, di Mirko Cisilino con il suo gruppo “Effetto Carsico“, del trio di Marco Rottoli con ospite Michele Polga (facenti parte della sezione “Scintille di Jazz”). Poi, per la stessa ragione, nemmeno di Michael Mayo, Gonzalo Rubalcaba & Aymée Nuviola, Giornale di Bordo (Antonello Salis, Gavino Murgia, Paolo Angeli e Hamid Drake), Tania Giannouli, Trio Correnteza di Gabriele Mirabassi.
Di alcuni di questi (Rubalcaba e Nuviola, Trio Correnteza, Giornale di Bordo) si mostrano però ugualmente le foto di Elena Carminati.