Teatro Asioli, 16 maggio – 1° giugno 2022
Foto di Tiziano Ghidorsisurman
Sono vent’anni di programmazione jazz, senza tanto sconfinare in altre musiche come ormai, soprattutto in Italia, è consolidato costume, con una messa a fuoco perfezionata durante il tempo che privilegia il jazz italiano e di esso soprattutto le nuove giovani forze maggiormente coinvolte con le poetiche contemporanee. Questo indirizzo fa di Correggio Jazz un unicum in Italia, da quando perlomeno s’è esaurita l’esperienza della rassegna di Foligno “Young Jazz” (e la sua transeunte propaggine nell’ambito di Umbria Jazz a Perugia). Non solo jazz italiano, però, a Correggio, perché ad esso vengono regolarmente mescolati grossi nomi internazionali.
Questa ventesima edizione è stata infatti inaugurata, il 16 maggio, da due gruppi provenienti dalla Francia: ma, come a contraddire quanto confermato sopra (del resto sono le eccezioni che confermano la regola), il duo formato da Laurianne Langevin al canto e Cyrille Doublet al piano ha avuto poco a che fare col jazz: s’è trattato di un sentito e ben riuscito omaggio a Edith Piaf, intrepretata con senso drammaturgico (che le apparteneva) e una personale verve espressiva, interpretazione corroborata dalla bellissima voce della Langevin che ha pure mostrato una ragguardevole estensione e una efficace padronanza delle dinamiche, accompagnata nel migliore dei modi da Doublet per la scelta delle sonorità, del tempo e delle armonizzazioni.
A seguire un altro omaggio, questa volta al violinista Stephane Grappelli, ricordato da Florin Niculescu e il suo quartetto con un virtuosismo spettacolare, ma anche pieno di anima, facendo fluire la musica senza apparente sforzo e rimandando alle vecchie registrazioni del Quintette du Hot Club de France, anche per la presenza, come ospite, di Christian Escoudé alla chitarra, con la quale ha fatto intravedere certi passaggi alla Django Reinhardt.
Il 18 maggio, altri due gruppi. Il duo di Filippo Vignato al trombone ed Enzo Carniel al pianoforte, Fender Rhodes ed elettroniche ha portato inizialmente in una atmosfera tardo impressionista corroborata e al contempo screziata dai continui impervi sconfinamenti del trombone in un clima marcatamente espressionista. Vignato, dalla tecnica sopraffina, trova i suoi ideali ispiratori in Albert Mangelsdorff e Roswell Rudd (e all’indietro, perché no? J.C. Higginbotham). La musica è densa, fitta, a tratti facendosi tumultuosa, incessantemente propositiva e piena di piacevoli sorprese.
Lo spettacolo “Yatra Songs” del quartetto del contrabbassista Enzo Pietropaoli (con i bravissimi Fulvio Sigurtà alla tromba, Julian Oliver Mazzariello al pianoforte e Alessandro Paternesi alla batteria) non è altro che la trasformazione di temi strumentali del repertorio di Pietropaoli e da lui composti in canzoni, con aggiunta di testi ad opera della vocalist Cristina Renzetti (e in un paio di brani del poeta Matteo Marchesini). Sembra di entrare nel mondo del più raffinato cantautorato italico attraverso il canto limpido e intenso della Renzetti e l’accompagnamento mosso e swingante del gruppo, imperlato di ottimi assolo a commento (ben riuscite anche le interpretazioni di due classici, le bellissime canzoni “Pedro Pedreiro” di Chico Buarque nella versione italiana resa celebre da Enzo Jannacci e “Se non avessi più te” di Luis Bacalov, che fu portata al successo da Gianni Morandi).
Il 20 maggio si è presentato sul palco il duo formato da John Surman al sax soprano, sax baritono e clarinetto basso, e Vigleik Storaas al pianoforte: una scrittura classicheggiante con sviluppi alla Edward Elgar e alla Vaughan Williams attraverso scarti armonici e melodici continui e spiazzanti, mantenendo estrema cantabilità delle linee melodiche, spesso folkeggianti. Queste vengono sostenute da un pianismo che presenta riferimenti con la scuola impressionista e minimalista, producendo atmosfere trasognate e di rara delicatezza.
La sera dopo s’è svolto il primo dei due concerti tenuti con differenti formazioni da Enrico Rava. Qui il suo flicorno (a cui ormai s’è totalmente dedicato, sostituendo la tromba) ha incontrato il pianoforte di Fred Hersch, con cui recentemente s’è cimentato in diverse occasioni, trovandosi a meraviglia. I due si integrano perfettamente, stimolandosi vicendevolmente, ognuno insinuandosi nelle pieghe dell’altro, interpretando alcuni dei più celebri standard. Hersch ha un’eloquenza pacata e persuasiva, contorta e insinuante; Rava produce un avvincente melodismo, a cui riesce sempre a dare un guizzo che incanta e sorprende.
Sulla falsariga anche il susseguente incontro di Rava con il pianista Danilo Rea, il 28 maggio. Il pianismo di Rea è più robusto di quello di Hersch, più diretto, e Rava ne coglie la diversa discorsività adeguandosi con impreziosita verve, insieme creando soluzioni inconsuete, effetti inattesi e narrativamente avvincenti.
Il 24, altri due gruppi italiani: nel primo set, il Marco Bardoscia Trio, con Bardoscia al contrabbasso, William Greco al pianoforte e Dario Congedo alla batteria, che ha prodotto un jazz pieno di amorevolezza, energia positiva e veracità comunicativa. Nel secondo, il Ghost Horse del tenor sassofonista e clarinettista basso Dan Kinzelman, con (di nuovo) Filippo Vignato al trombone, Glauco Benedetti all’euphonium e tuba, Gabrio Baldacci alla chitarra baritono, Joe Rehmer al contrabbasso e Stefano Tamborrino alla batteria. Il gruppo ha ribadito, con una formazione allargata rispetto al trio originario, la bontà di scelte estetiche non usuali, puntando a far emergere la spinta creativa dell’ensemble più che l’esposizione di frammentate individualità. È un para-jazz arduo e aggressivo che insiste su grumi tematici iterati, quasi ossessivi, con un lavoro veemente dei fiati e una marcata compattezza della sezione ritmica, rendendo vitale e palpitante il quadro d’insieme.
Il 25 il quartetto del trombettista americano Ambrose Akinmusire con Micah Thomas al pianoforte, Harish Raghavan al contrabbasso e Kweku Sumbry alla batteria (che ha preso il posto dell’annunciato Justin Brown) ha esibito un superlativo post-bop energico e sontuoso, bizzarro e passionale, non rinunciando, consapevole di camminare su un terreno solido e sicuro, a esplorazioni inusitate. Questa ricerca si denota, oltre che nelle improvvisazioni (quelle di Akinmusire sono un groviglio di stilemi che ricordano Booker Little, Kenny Wheeler e Dave Douglas), anche nelle composizioni e negli arrangiamenti.
Il 27, due quartetti. Quello del batterista Enrico Morello, con Francesco Lento alla tromba, Daniele Tittarelli al sax alto e Matteo Bortone al contrabbasso, ricalca le formazioni moderne che, da Ornette Coleman in poi, hanno lavorato con due fiati e ritmica, senza pianoforte. S’è detto di Coleman, non di Gerry Mulligan/Chet Baker (pianoless che c’era stato prima), perché con Lento e Tittarelli si è stilisticamente più sul crinale di Ornette; ma l’ottima musica prodotta dal gruppo va anche oltre, rifacendosi a quella sviluppata dagli anni Ottanta in poi da Dave Holland con Steve Coleman e pure con Kenny Wheeler.
Maggiormente legata alla tradizione pre-bop e a suoni più distesi è stata la musica del quartetto di Dino Rubino, che per l’occasione ha suonato il pianoforte lasciando in un cantuccio la tromba, di cui pure è virtuoso. Con lui Piero Delle Monache, che suona “alla vecchia” ricordando i campioni del sax tenore del periodo classico del jazz, Marco Bardoscia al contrabbasso e l’appassionato Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Là mancava il pianoforte, qui manca la batteria, e l’assenza di tamburi e piatti ha portato a privilegiare una dimensione lirica, sognante e assorta della musica, quasi una sorta di iper riflessione e scavo su melodie che sembrano spesso, anche per l’apporto di Di Bonaventura, piccoli classici inediti del “nuevo tango”.
Delle undici serate del festival, quattro delle quali con doppi set, non abbiamo potuto seguire le ultime tre: quelle con i migliori allievi dei seminari di “Correggio on time”, con l’orchestra Ottovolante di Mauro Ottolini e con il quartetto Saxofollia che ha ospitato Fabrizio Bosso.