Volevo cominciare chiedendoti alcune cose lette sulla tua biografia. Tu hai avuto una lunga esperienza di musicista su navi da crociera, hotels, clubs. Cosa ti rimane di questa esperienza oggi?
Come tanti musicisti, italiani e non, che hanno iniziato a suonare negli anni settanta , anch’ io sono stato coinvolto dalla musica rock del periodo, nonostante in casa ascoltassi e apprezzassi i dischi di mio padre: Benny Goodman, Glenn Miller, Duke Ellington, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald etc. e inoltre molto presto cominciai a guadagnarmi la vita e un po’ d’esperienza musicale e di vita vissuta fuori dal mio ambiente pisano, suonando prima in sale da ballo e discoteche toscane, e poi in night club italiani e svizzeri e infine in altri stati d’Europa centrale e del nord in hotels e clubs. La musica che spesso dovevo suonare non soddisfaceva i miei gusti musicali e necessità espressive, il che mi portava ad ascoltare jazz e fusion gran parte del resto della giornata e riprodurre poi i fraseggi che mi restavano in mente negli assoli a me concessi durante la serata musicale. Diciamo che questo tipo di esperienza è valida per un periodo piuttosto corto, per “farsi le ossa” in una situazione di “mestiere”, però è bene non rimanerci troppo altrimenti si rimane un po’ invischiati in un tipo di mentalità e di rapporto con la musica che è controproducente e rischia di distoglierti dall’inseguimento degli ideali di creatività e arte, che poi sono quelli che contano e che portano a realizzarti come persona e come musicista.
Fortunatamente io ne uscii in tempo – anche se avrei potuto farlo prima – per cominciare anzi un processo di trasformazione che spero e credo mi ha portato a trovarli.
Le navi da crociera, specialmente quelle in America e ora anche in Giappone, sono però senz’altro una eccellente scuola “pratica”: si deve suonare di tutto, ma in diverse situazioni musicali e spesso in “small big band”, dove si fa molto swing alla Basie e molto jazz tradizionale e le esigenze di competenza musicale da parte dei musicisti “entertainers” sono molto più elevate che in un night club o un hotel europeo.
Cosa mi è rimasto oggi? Un bel po’ di esperienza “pratica” , bei ricordi di viaggi tra musicisti e orchestrali di tutto il mondo, e le due canzoni riarrangiate a mio modo del disco: “Raccontami di te” e “La più bella del mondo” due pezzi molto suonati negli anni ’70 nel night club italiano!
Quando hai deciso di andare negli Stati Uniti?
Quando ho capito che io personalmente sarei stato motivato e facilitato da un ambiente e una scuola come la Berklee che mi avrebbero un po’ “reggimentato” e spinto a studiare con più costanza la musica che già praticamente amavo e suonavo, ma con poco approfondimento tecnico e con limitata esperienza. Così un bel giorno dell’83 decisi di sciogliere il mio trio con cui avevo lavorato quell’anno in Norvegia, Germania e Svizzera e l’anno dopo raccolsi i miei risparmi e presi il mio primo aereo da Stoccarda – accomiatandomi dalla mia ragazza tedesca – per frequentare il già famoso Berklee College of Music di Boston, di cui avevo saputo da due amici musicisti italiani che c’erano già stati, Antonio Petrini e Adriano Viterbo, di cui avevo notato l’evidente salto di qualità tecnica e di “concept”.
Cosa ti ha dato il Berklee?
Il primo anno moltissimo, da tutti i punti di vista: un grande salto in avanti nella lettura a prima vista, grandi progressi nella conoscenza delle varie tecniche pianistiche di armonizzazione jazz, e di riflesso un miglioramento anche nel mio fraseggio basato sul bop, che però devo dire c’era già. Ovviamente però una maggiore conoscenza delle riarmonizzazioni e delle tecniche e una esperienza costante con un numero sempre maggiore di brani jazz non può che aprirti nuove vie di espressione anche da quel punto di vista. Gli anni successivi (2) prima della “graduation” furono senz’altro utili, ma l’impatto del primo anno e soprattutto del primo semestre sono stati più forti.
Con ciò certo non voglio assolutamente dire che l’esperienza Berklee o americana sia imperativa: ci sono talmente tanti grandissimi musicisti jazz italiani ed europei-molto famosi che si sono “fatti da soli”!
L’importante è ascoltare tanto jazz e studiare e se si ha un po’ di talento innato e determinazione, si raggiunge ugualmente il fine desiderato. La musica e’ come la vita: non si smette mai di imparare comunque!
Hai suonato con Chet Baker, Lee Konitz e Kenny Wheeler. Un ricordo per ognuno di essi.
Chet, nell’87, incontrandomi per la prima volta a cena, un’ora prima di suonare – senza prove – in prima serata, sostituivo il grande Luca Flores, mi chiede in italiano: “Conosci My funny Valentine?”. Io rispondo “sì”, un po’ intimidito perchè sapevo di non avere neanche un millesimo della sua esperienza jazzistica – e lui semplicemente: “Allora va bene”, dopodichè si appisola tra la pasta e il secondo, poi si sveglia, la cena è quasi finita, suoniamo poi in quartetto e naturalmente lui suona come sempre: da Dio.
Lee Konitz, in una pausa tra un set e l’altro in una serata in duo, mi dice due parole di approvazione e poi mi fa: “ehi, io ti ho offerto già due “validations” e tu non mi hai detto ancora niente!”. Io in realtà ero ancora frastornato dalla poesia che era riuscito a creare da solo in duo con me al Fender Rhodes – e il mio accompagnamento dell’epoca certo gli sarà sembrato molto “standard” per le sue abitudini già più moderne (Andrew Hill, Martial Solal, Pieranunzi) – e io gli rispondo “Ma tu non ne hai bisogno: sei Lee Konitz!”. Lui ride: “Certo che ne ho bisogno!”. Qualche volta nell’idealizzare queste figure, ci si dimentica che sono esseri umani anche loro! Dovevi vederlo quando lo portai a visitare il Battistero di Pisa: cominciò a emettere fischi vari perchè gli avevan detto che c’era un’incredibile eco, e un prete subito lo zittì con un “shhhh!”
Kenny Wheeler, provando una sua composizione: “Non amo particolarmente il hi-hat in 2 e 4”. Il batterista, un seguace di Buddy Rich e Max Roach, si adattò però bene per la serata, in cui comunque suonammo prevalentemente standards. L’originale di Kenny “Smatter”, è uno dei miei preferiti.
Parlaci un po’ delle tue influenze pianistiche sia dal punto di vista tecnico che espressivo.
Non ho mai avuto un unico “idolo” pianista, come può succedere naturalmente ad altri.
Nell’improvvisazione ho sempre cercato istintivamente di riprodurre il fraseggio degli strumenti a fiato, il che mi ha fatto spesso pensare, data la mia facilità naturale più melodica che armonica, che forse avrei dovuto continuare a studiare il clarinetto, il cui studio abbandonai quando cominciai a viaggiare.
Però bisogna ricordare Horace Silver e un altro grande – recentemente scomparso in tragiche circostanze – Jaki Byard, che ambedue suonavano anche il sax. Horace cominciò col sax, poi passò al piano e c’è chi dice che questo gli abbia dato la sua impronta personale al pianoforte. Di Jaki Byard forse ho anch’io la peculiarità (o vizio? non da tutti è apprezzata) – di inserire occasionalmente frammenti di stili provenienti da ere diverse del jazz in uno stesso brano o assolo, ma non è un’abitudine costante.
Citerò altre influenze di diversi periodi del jazz, alcune più udibili nel mio modo di suonare, altre meno: Teddy Wilson, Count Basie, Oscar Peterson, Bill Evans, Wynton Kelly, Herbie Hancock, Chick Corea. Vorrei aggiungere Ray Charles, da pochissimi conosciuto come pianista bop, e il pianista, più famoso poi come organista rock-jazz, l’inglese Brian Auger.
Tra i non-pianisti, Charlie Parker, Chet Baker, Gerry Mulligan.
Che approccio segui nell’improvvisazione?
Ho già in parte involontariamente risposto nella domanda precedente, ma posso aggiungere qualcosa dal punto di vista stilistico: nonostante io abbia studiato abbastanza anche gli stili più moderni e riesca a suonare un pezzo di Miles del periodo Shorter-Hancock o uno del quartetto di Coltrane con McCoy Tyner senza risultare troppo “fuori stile”, e possa anche occasionalmente, come si dice in gergo, “uscire” un po’, mi sento tuttavia sempre maggiormente legato al bop e la tradizione come approccio tecnico e stilistico all’improvvisazione e quindi sono più a mio agio in tale contesto. Dal punto di vista estetico – gusto personale – preferisco rimanere melodico per la maggior parte del mio assolo e – dove il brano me lo permetta – persino lirico, cercando però di non perdere di energia e “groove”. Nonostante non scelga o componga spesso brani blues, il blues fa parte della mia esperienza musicale e ciò è avvertibile qua e là nei miei assoli.
Come è organizzato il tuo studio oggi sia col piano che con la voce?
Beh, senz’altro mi sento ancora molto più pianista e compositore che cantante, ma il mio obbiettivo è di portare i vari livelli ad un maggiore bilanciamento tecnico ed espressivo. Tecnicamente, col piano sto cercando di migliorare ulteriormente la precisione ritmica, e di affinare l’interazione melodica e armonica con lo strumento solista durante l’accompagnamento. Per l’improvvisazione, sto gradualmente rilassandomi e cercando di suonare meno fraseggi “noti” o standard, in favore di un orientamento melodico e più “risparmiatore”, spostando però la posizione delle frasi sulle progressioni armoniche in maniera più inusuale, per ottenere un effetto che è sempre melodico, data la scelta delle note, ma più moderno e spero più personale.
Con la voce studio un po’ di tecnica vocale tradizionale, ma soprattutto lavoro nel curare l’efficacia interpretativa della frase e la pronuncia inglese: anche se credo di avere una buona pronuncia, quaggiù è dura se non si è di madrelingua!
Ancora sulla voce: influenze da Chet Baker e Frank Sinatra. Ascoltando il tuo CD si avverte anche un forte legame con la tradizione. Quanto è importante per te?
Per me è senz’altro importante, perchè a me piace una melodia esposta sempre in maniera che il pubblico possa riconoscere il brano, poi mi piace anche fare scat, ma come se fosse un chorus strumentale, per poi ritornare ad una melodia interpretata e variata ma rimanendo entro certi confini. Questo senza togliere di validità ai grandi interpreti del jazz vocale moderno come Betty Carter, è semplicemente una sensibilità personale mia. Se poi questo, o l’ecletticità del mio disco in quanto a diversità di generi o stili, mi facesse uscire un po’ dai canoni accettati dalla critica per definire “jazz” un CD o un interpretazione vocale , la cosa non mi preoccupa – la musica in genere si sta facendo sempre più “globale” e l’etichettare generi o stili non ha mai completamente funzionato per nessuno.
C’e’ ancora il dibattito, per esempio, se Frank Sinatra fosse un cantante jazz o pop.
Io penso che dovrebbe essere considerato tutt’e due, perchè cominciò con l’orchestra di Harry James, per passare poi a quella di Tommy Dorsey, in un era in cui le big bands e lo swing erano ambedue swing e pop. Ma poi , che importa? Era un grande e basta!
Chet Baker è considerato un cantante jazz per il tipo di gruppi, il periodo e gli ambienti in cui cantava, inoltre è vero che faceva anche un grande “scat”, ma se ascolti come espone la melodia con la voce, non c’erano poi molte più variazioni di quante ne facesse Sinatra, di cui vocalmente era fra l’altro un ammiratore.
Tutt’e due esponevano la melodia in maniera chiara e in apparenza relativamente semplice, sempre però interpretandola, come Billie Holiday (che ambedue avevano ascoltato) e imprimendovi ognuno la loro impronta personalissima.
Spesso, a torto o a ragione, anche la critica è…criticata. Come vivi tu il rapporto con la critica e come pensi debba essere? Inoltre, qual è la situazione americana?
Beh, io sono solo agli inizi nel mio rapporto con la critica, ma osservando il mondo musicale ti posso dire questo: ci sono critici che sanno di cosa parlano, altri meno, e altri “improvvisano” di più. Alcuni sono puristi, altri no. Cosa significherà poi “purista”? Lo stesso jazz in assoluto è nato come una forma di “fusion”!
Senz’altro sono capaci di trovare un numero incredibile di aggettivi per definire e descrivere la musica e lo stile di un musicista. Ricordo una volta di aver visto forse 10 aggettivi solo per descrivere la qualità della voce di un cantante – era in un libro di un mio amico di Viareggio che adesso scrive per Musica Jazz – Luciano Federighi. Strabiliante abilità!
La critica è utile all’artista della musica come pubblicità del suo lavoro; attenzione alle recensioni negative, però…come musicisti dovremmo continuare a fare quello che ci viene dettato dal nostro animo senza venire influenzati da critiche di qualsiasi tipo. Ammetto che non e’ facile.
Torniamo alla tradizione. Da un po’ anche in America attraverso operazioni come quella di Wynton Marsalis si sta rivalutando la tradizione. Cosa pensi in merito?
Prima di parlare della tradizione, bisogna prima dire che l’avanguardia nel jazz comunque non ha mai avuto vita facile negli Stati Uniti!
Penso che tali operazioni pro-tradizione hanno senz’altro riavvicinato molti giovani americani al jazz, che negli anni ’70 era in grave pericolo di “estinzione” e questo è il lato positivo, insieme al fatto che i Marsalis e i cosiddetti “young lions”, tutti certo ottimi musicisti, hanno promosso una grande attività didattica qui negli USA. Il lato negativo è che nell’analizzare al microscopio e riprodurre la musica tradizionale quasi “come sul disco” spesso ci si dimentica di ripescare anche l’anima di quella musica e queste “riproduzioni” suonano perfette tecnicamente ma a mio avviso sono fredde, “dry”, mancano dello spirito che pervadeva le performances originali. Forse è perchè semplicemente riflettevano lo spirito di quei tempi? E’ buffo che me lo chiedi adesso perchè ho appena cominciato una conversazione e-mail con un cinquantacinquenne trombettista di New Orleans, Richard Robson Fleming, che ha trascorso gli ultimi 15 anni nel pianificare un suo sistema personale per riportare “in vita” la musica jazz degli anni ’20 e ’30 secondo un suo programma chiamato Original Culture Network e un suo “sistema non-politico per creare un business internazionale e strutture artistiche designate a sostenere problemi mondiali” chiamato “World Unity Project”.
Forse è solo un simpatico visionario con un sogno utopistico, ma un tipo interessante, lo potete contattare a: richflem@bellsouth.net o andare su www.worldunityproject.com.
Sul CD ci sono 7 brani di tua composizione, 3 standard (ottimo “You Don’t Know What Love Is”) e 4 brani italiani cantati e riarrangiati: “Raccontami di te” di Bruno Martino, “In Cerca di Te”, “Bambina Innamorata” e “La più bella del mondo”. Come è avvenuta la scelta dei brani del CD?
E’ senz’altro un CD eclettico, ma ho sperato che lo stile di arrangiamento, la melodicità dei pezzi e degli assoli creasse un po’ un filo di congiunzione.
Le mie composizioni originali sono di diversi periodi della mia vita, ma messe insieme in un CD per la prima volta.
In un disco che è il primo a mio nome non ho voluto includere solo composizioni originali, e ho pensato di ardire cantando in italiano negli Stati Uniti perchè è la mia lingua e se i latino-americani e gli ispanici qui lo possono fare con lo spagnolo, non vedo perchè noi non dovremmo. In Nord-America la lingua italiana nel canto è legata ancora all’immagine della musica operistica e purtroppo c’è un’associazione mentale con le pubblicità dei ristoranti e delle ricette della pasta… (raramente azzeccate comunque!). Non fraintendermi però, amo il canto italiano “serio” tradizionale e sono orgogliosissimo di Andrea Bocelli – forse il più grande cantante in assoluto della scena mondiale odierna – e dell’incredibile successo che sta avendo qui negli Stati Uniti (per di più, è nato in provincia di Pisa!).
Ho conosciuto Bruno Martino personalmente, suonavamo nello stesso locale a Marina di Pietrasanta un giorno e lui venne personalmente a complimentarsi con noi (ero in duo con una cantante, Stefania Dal Pino) al chè subito dissi di essere sempre stato un suo fan. Fu uno dei pochi in Italia che componeva, cantava e suonava pezzi jazzistici negli anni ’50 e ’60.
“In cerca di te” è una delle canzoni italiane preferite di mio padre, che amava il lavoro di Natalino Otto, un cantante italiano degli anni ’40 che andrebbe rivalutato e riascoltato in Italia e altrove. “Bambina innamorata” è un altro tra gli “standards” belli italiani che vorrei fossero più suonati dai jazzisti, almeno quanto viene fatto attualmente con “Estate”, la canzone di Bruno Martino che Shirley Horn, Chet Baker e Joao Gilberto hanno introdotto sulla scena del jazz mondiale.
Credo che questo CD sia un po’ la somma delle mie svariate esperienze e gusti musicali.
Oltre te, sul CD suonano ben 16 musicisti, vuoi presentarceli un po’?
I musicisti del CD sono tutti abitanti della zona del New England (Massachusetts, New Hampshire, Maine, Rhode Island) eccetto Jorge Rossy, batterista catalano che dopo aver suonato con Paquito D’Rivera, attualmente lavora e incide a New York con il trio di Brad Mehldau – un grandissimo pianista statunitense di cui senz’altro avrete già udito le “gesta”. Jorge incise con me “You don’t know what love is” quando si trovava a Boston qualche anno fa, tutti gli altri brani del mio CD sono più recenti (2000). In quel brano il bassista è l’ottimo Raetus Flisch,uno svizzero tornato in patria, di cui ho perso le tracce. C’è nessuno che lo conosce e sa dov’è?
I più presenti sono i bravi Todd Baker al basso, ex diplomato Berklee e che adesso insegna all’Università del Massachusetts, e ha suonato con Scott Hamilton, Cab Calloway, Rosemary Clooney, Steve Allen, Hellen O’Connell, le orchestre di Woody Herman e Artie Shaw, i Four Freshmen , ecc. e poi Bob Savine alla batteria, che ha suonato con Herb Pomeroy, Pat Metheny e il fratello Mike Metheny, trombettista, Fred Hersch, Tiger Okoshi, ecc.
Todd and Bob sono musicisti free-lance che fanno parte del mio trio stabile, nonchè del mio ottetto con piano, basso, batteria, tre fiati, fisarmonica & percussioni.
Il fisarmonicista, Roberto Cassan, è l’unico altro italiano, di Fanna (Pordenone), anche lui un ex – Berklee – student.
Tra i non americani di origine, ci sono un francese, Lionel Girardeau, e un argentino, Fernando Huergo, ambedue bassisti elettrici e ambedue ex-Berklee, il secondo attualmente vi insegna.
Riprendendo con gli americani, ecco Phil Person, grande solista della tromba (sono specialmente compiaciuto del suo bellissimo assolo su “Bambina innamorata”) e Tim McCall, con cui ho suonato in tour nell’orchestra di Artie Shaw diretta da Dick Johnson – è Tim il sassofonista tenore dal suono corposo e l’approccio melodico e “Gordoniano” di “Sea sadness”, una mia ballad. Ha anche lui un CD a suo nome.
Al Cron ha suonato quasi tutti gli assoli di trombone – decisamente un hard bop player!
Un percussionista, Renato Thoms, sudamericano, è stato inserito in alcuni brani di sapore più latino, e infine si sente un flauto, Bob Patton, (anche al sax alto), peraltro engineer di tutte le incisioni eccetto “You don’t know what love is”, e poi ci sono Mike Peipman, australiano, alla tromba e flicorno, e, in 2 brani, Jeff Galindo (che ha lavorato con Phil Woods) al trombone, anche lui insegnante del Berklee, con un CD personale. Altri batteristi presenti sono Steve Langone, che recentemente ha prodotto anche lui un CD a suo nome, e Steve Hass, un Newyorkese anch’egli ex-Berkleiano.
Oltre alla già citata “You Don’t Know What Love Is” con Jorge Rossy e Raetus Flish, sui brani del CD in cui suoni in trio con Todd Baker e Bob Savine sembri totalmente a tuo agio e interagite molto bene. A tal proposito mi piace citare i due brani rispettivamente di apertura e chiusura (Easy To Love di Porter e Our Love Is Here To Stay di Gershwin) oltre a Pisa Nova e Ferdi’sMood (con l’aggiunta di qualche “tappeto”), tue composizioni.
Cosa pensi riguardo le possibilità espressive offerte dalla formula del trio rispetto a formazioni più ampie e quale è l’approccio del leader?
Ti dirò che all’inizio ero indeciso se incidere solo in trio o no. Certo il trio lascia al pianista più possibilità di esprimersi liberamente. Io però in questo disco ho voluto soddisfare anche le mie velleità di arrangiamento e in effetti mi piace molto anche musica orchestrata con un numero maggiore di strumenti. Col trio lascio liberi il bassista e il batterista di suonare seguendo il loro feeling, naturalmente dicendo loro come sento il brano con “l’orecchio della mente”; ovviamente quando il gruppo è più ampio devo essere più rigido e specifico nelle richieste e istruzioni agli altri musicisti.
Chi sono secondo te i Trii di ieri ma, soprattutto, di oggi con la T maiuscola?
Beh, ti posso citare due grandi trii anche se diversissimi: quello di Oscar Peterson ieri e quello di Keith Jarrett oggi, di cui l’ultima versione è anche più vicina alla mia sensibilità jazzistica (in altre parole, mi diverte di più ascoltarlo).
Altri due, ancora diversi? Quello di Benny Goodman ieri…l’altro (1938 circa) con Gene Krupa, batteria, Teddy Wilson, piano, e Goodman al clarinetto (che a volte diventava un quartetto con l’aggiunta di Lionel Hampton al vibrafono) e quello abbastanza recente di Chick Corea con Dave Weckl e John Patitucci, o con Eddie Gomez e Steve Gadd – non mi pare però questi tre abbiano mai inciso un intero album solo in trio, vero? Nel trio con Patitucci e Weckl c’è molto virtuosismo fine a se stesso, ma sono così precisi e “puliti”! E Brad Mehldau l’avete sentito? Un nuovo genio del contrappunto jazz con un grande trio.
Qualche altro trio? I trii di McCoy Tyner con Elvin Jones alla batteria negli anni ’60, non importa quale bassista; Herbie Hancock con Tony Williams e Ron Carter, anche se ora nemmeno di loro ricordo un intero disco inciso in trio. Qualsiasi trio di Bud Powell! Un trio di oggi un po’ “latino”, funky e jazz allo stesso tempo, con un tiro “micidiale”? Quello di Michel Camilo, eccezionale pianista anche lui .
Quali pianisti italiani conosci e apprezzi?
Avevo già nominato il grande Luca Flores, purtroppo non più tra noi. Una grave perdita per il jazz italiano, come anche quella di Massimo Urbani, che durante una gig mi chiese se avessi studiato il suo pianismo – (il che veramente non avevo fatto) e mi disse quanto stimasse Luca musicalmente lui stesso.
Altri due grandissimi, anche se diversi: Enrico Pieranunzi, Dado Moroni.
E poi ora ce ne sono talmente tanti validissimi, che non vorrei lasciarne fuori nessuno, comunque ricorderò ovviamente il noto Franco D’Andrea, e poi Paolo Birro, Antonio Farao’, Salvatore Bonafede, Renato Chicco, Rita Marcotulli, Danilo Rea, Stefano Bollani, Mauro Grossi etc .
Il CD contiene molte foto di sfondo di Pisa e Firenze. Un po’ di nostalgia? Quanto sono importanti per te queste città?
Hai ragione. Però ce ne sono anche una di Venezia, una a Roma, una di un fiordo norvegese e una del Grand Canyon!
Certo la Toscana e specialmente Pisa, la mia città natale, sono ovviamente importanti per me, come lo è tutta l’Italia. Penso che molti come me che abitano all’estero sviluppino forse da un lato una sana capacità di distacco dalla madreterra, ma contemporaneamente un amore e un orgoglio superiore di quando vi abitavano ogni giorno, quando davano tutto per scontato. Quando torno in Italia con mia moglie (di Detroit, ma italo-americana) adesso apprezzo molto di più l’architettura, i siti storici, i paesaggi! (per non parlare dell’abbigliamento o del vitto!…).
Il CD è prodotto dalla FERDI’S MUSIC che è la tua etichetta. Come nasce questa idea e da quando esiste? Hai in progetto di produrre altri musicisti?
L’etichetta è mia ed esiste da un anno. E’ anche la mia publishing company che è affiliata ad ASCAP. Per il momento non ho intenzione di produrre altri musicisti, ma in futuro è possibile.
Un’opinione sulla scena jazzistica attuale degli Stati Uniti.
Io avevo sempre sentito dire che negli Stati Uniti il jazz non viene considerato abbastanza come arte, a differenza dell’Europa o il Giappone, dove invece in confronto è portato alle stelle.
Analizziamo un po’ la questione. In parte è vero, anche se qui le cose sono un po’ cambiate per il meglio nell’ultimo ventennio. Lee Konitz stesso però nell’87 mi disse che a New York aveva poco lavoro e doveva venire in Europa e fare tourneè e, come sappiamo, molti jazzisti famosi vivono in Europa. Il problema in America però è non tanto la considerazione del jazz come forma d’arte, che è migliore adesso, ma i fondi stanziati per le arti in generale, che credo siano, in proporzione, maggiori in Europa. Mi dicono che qui in USA i democratici tendono ad essere più generosi con le arti dei repubblicani.
Però dal punto di vista “culturale” c’è anche un rovescio della medaglia. Avendo abitato sia qui in America che in Europa, mi sono accorto di una differenza sostanziale nella musicalità o abitudine a certi tipi di musica da parte dell’uomo della strada. Un assolo di jazz è sopportato o apprezzato molto meno dall’uomo della strada europeo che da uno americano. E questo sia che il solo sia di Michael Brecker o Coleman Hawkins. Parlo dell’uomo comune, non particolarmente appassionato di jazz.
Qui la musica è così parte di tutto e di tutti che la gente ha forse un’assuefazione maggiore a più generi musicali e specialmente all’improvvisazione (se si esclude forse l’avanguardia più estrema!).
“My funny Valentine” qui è sì un brano jazz, ma è prevalentemente una canzone di cui la gente ricorda le parole e collega a “Valentine’s day”. In Europa, è un pezzo jazz che un elite di persone con orecchio più coltivato conosce per l’interpretazione di Miles o Chet. Qui si può suonare jazz tradizionale fino al be-bop incluso e la gente quando può ci balla sotto. In Europa non succede. Capisci cosa voglio dire? Il jazz una volta qui era una musica del popolo e ciò è rimasto nella loro cultura di tutti i giorni e nella loro consapevolezza. In Europa non lo è mai stato, almeno in passato. Però l’Europa ha saputo giustamente valutare il jazz, fin quasi dagli inizi, come forma d’arte che è nata dal popolo – afroamericano in origine e in prevalenza, ma non solo – e questo fatto ha avuto le sue ripercussioni positive anche negli USA.
Comunque tutto nel mondo occidentale si sta uniformando, grazie ai “media”, internet, i maggiori scambi culturali e i viaggi oltreoceanici più frequenti. Persino il “groove”, l’energia e la precisione ritmica non sono solo più totale supremazia americana o degli afroamericani (l’ultima volta che sono stato a Pisa ho ascoltato un duo funk con un tipo di “tiro” e un “groove” che mi aspetterei di sentire solo a New York!). In Europa forse c’è maggiore ricerca creativa nel jazz, anche se spesso per i miei gusti troppa intellettualizzazione.
Per me non è solo col cervello che si compone un brano, ma con quella parte profonda e superiore di te che riesce a commuoverti quando trovi quella melodia o quella progressione armonica che ti toccano il cuore.
Il jazz non è morto da nessuna parte, solo che a volte l’attenzione alla precisione tecnica nell’esecuzione sta un po’ prevalendo sul feeling e l’anima della musica. Ma c’è sempre chi ci mette il cuore.
Suonare jazz e mantenersi solo suonando questo tipo di musica però è sempre difficile, qui come in Europa. Io sono fortunato ad avere 6 “gigs” alla settimana, al momento, in cui suono solo standards e qualche original. Nel frattempo promuovo il disco e le mie due formazioni.
Non so se “Smooth jazz” sia arrivato anche in Italia, ma qui esiste un surrogato commerciale così chiamato che va forte come vendita, di cui Kenny G è il campione supremo sdegnato dai jazzisti più impegnati ma comprato dal pubblico, e nel cui contesto si ascoltano un gran numero di artisti molto differenti tra di loro – si confondono ad esempio Dave Koz e David Benoit (funky easy listening pop-jazz = smooth) con George Benson, la voce di Nat King Cole e la figlia Natalie Cole, e talvolta brani tipicamente pop, solo un po’ più sofisticati!
Diciamo che qualcosa arriva anche qui. Ho seguito un po’ la polemica al vetriolo tra Kenny G e Pat Metheny! Ho un bel CD di David Benoit (Waiting For Spring) con la grande e compianta Emily Remler, John Patitucci e Peter Erskine, ma poi il resto non mi è piaciuto molto. Tu cosa pensi su questa tendenza?
Non ho sentito il disco a cui ti riferisci, vedrò di ascoltarlo.
Beh, in genere il Smooth Jazz è un po’ monotono e suonato con molta pulizia tecnica e d’incisione ma poco spirito – a meno che non sia George Benson, naturalmente; anche se suonano spesso sue incisioni più commerciali nei programmi radio “Smooth jazz”, non lo definirei mai “Smooth”! Io non ho niente contro la musica più easy listening, se le composizioni hanno carattere e i musicisti ci mettono l’anima, cioè se i temi sono belli e gli assoli intensi.
Sì, la polemica tra Kenny e Pat mi ha divertito, qui ci sono stati diversi articoli sui giornali e tutti e due avevano sostenitori e oppositori. Tutti però erano d’accordo su un fatto: che Kenny non è il più dotato sassofonista del mondo ma senz’altro il più ricco e il più di successo a livello di massa.
Segui un po’ il jazz italiano, i festival, i musicisti? Se sì, chi/cosa in particolare?
Seguo adesso tramite internet, gli italiani che passano di qui, e le mie visite in Italia sempre più rare, ultimamente, ma conosco sempre molti musicisti che ogni tanto contatto per avere notizie. Ho visto il sito di Paolo Fresu, con cui ho suonato qualche volta in Italia dall’87 al ’90. Bello. Non lo sapevo anche un amante della poesia (al di fuori della musica).
Un consiglio a chi dall’Italia sogna il Berklee e l’America
Frequentare Berklee oggi è sempre più costoso, ma il College offre molte borse di studio e poi è in Italia ogni anno per i workshops a Perugia in concomitanza con Umbria Jazz. E’ sempre più una scuola famosa in tutto il mondo per il jazz ma che paradossalmente, ma necessariamente per il business, apre sempre più le porte a tutti i generi di musica rock e pop contemporanea e introduce sempre più classi di tecnologia applicata alla musica e business della musica (il che non è affatto un male in se stesso). Si è però ingrandita e ha insegnanti di tutti i livelli ed esperienze musicali (le buone notizie tra i relativamente nuovi insegnanti: Joanne Brackeen & Kennwood Dennard.
Se i “sognatori” di Berklee amano l’avventura e hanno un bel po’ di risparmi, perchè no, magari alternando o corroborando l’esperienza Berklee con studi privati con grandi musicisti teachers della zona come Charlie Banacos e Jerry Bergonzi…altrimenti, come ho detto, ci sono molti musicisti e insegnanti bravi anche in Italia adesso!
In conclusione, Ferdinando Argenti oggi.
Un ex-nomade (…non del gruppo pop italiano degli anni 60!…) – girovago del mondo musicale che finalmente si è stabilito in un luogo fisso e finalmente sta scoprendo se stesso in molti sensi, e specialmente in quello musicale, cercando di proporre al mondo quello che ha dentro e non ha mai lasciato veramente uscire.
Ogni tanto però mi viene un pò di nostalgia dei miei viaggi: spero quindi in futuro di poter viaggiare di nuovo, ma questa volta con la mia musica!
…e Ferdinando Argenti domani.
Il mio obbiettivo è di promuovere questa musica finchè tutta o parte della musica contenuta nel CD ottenga più ascolto e sostegno di tipo promozionale, per poter poi continuare a incidere su questa strada e affinare la mie capacità compositive (scrivo anche testi , ma non ne ho inclusi nessuno in questo album) e poter esprimermi con un tipo di musica che scaturisce dalla parte migliore di me e che mi auguro possa arricchire un po’ spiritualmente chi la ascolta…e chi la suona!
Ti vedremo in Italia?
Lo spero molto. Sarò comunque in Italia per una visita ai miei sempre più anziani ma sempre arzilli genitori il prossimo Febbraio 2002 (ancora non mi abituo a questi numeri!). Mille grazie e arrivederci a tutti!
Lo speriamo anche noi, magari col tuo trio 😉
Certo , col trio è più facile ottenere ingaggi!….