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Internationales Jazz Festival Münster

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3-5 gennaio 2025

Si svolge dal 1979, ogni due anni, il festival della bella città universitaria della Renania Settentrionale-Vestfalia. La brillante direzione artistica di Fritz Schmücker ha proposto quest’anno ben sedici concerti in tre giorni, oltre ad altre attività collaterali. La particolarità è che la maggior parte dei concerti, che si sono tenuti in due sale – sempre soldout – del prestigioso Theater Münster, la Grosses Haus che contiene mille spettatori e la Kleines Haus che ne contiene trecentocinquanta, riguardavano concerti di formazioni internazionali che si ascoltavano per la prima volta in Germania. Ciò conferisce allo storico festival un’importanza particolare, e ne fa un punto di riferimento per tutti gli appassionati europei.

Andiamo per ordine. La presenza italiana, nella prima serata, ha visto Nicolò Ricci al sax tenore e Federico Calcagno al clarinetto basso nella applaudita Brainteaser Orchestra di Tyn Wybenga, formazione di dodici elementi che ha ospitato il violino di Theo Ceccaldi. L’orchestra, con base ad Amsterdam, che accoglie musicisti provenienti da diversi paesi, ha presentato un repertorio nuovo, commissionato dalla Bimhuis di Amsterdam, totalmente differente da quello eseguito nel concerto di Saalfelden della scorsa estate. Una scrittura densa e complessa, composizioni interessanti anche sotto l’aspetto ritmico, che gioca sugli equilibri fra archi, fiati e sezione ritmica, con spazio a ottimi assolo (citerei Calcagno, ovviamente l’ospite Ceccaldi, e soprattutto la trombonista Nabou Claerhout, un nome da tener d’occhio).

Altra presenza italiana di qualità quella del trio di Gianluigi Trovesi con Paolo Damiani al contrabbasso e Ettore Fioravanti alla batteria, applauditissimo dal pubblico del festival. La musica del maestro di Nembro, prossimo a varcare la soglia degli 81 anni, conserva la freschezza del suo sapore antico e popolare, espressa attraverso l’uso di tre strumenti per l’occasione: il clarinetto basso, il clarinetto piccolo e il sax alto, quest’ultimo per la verità utilizzato solo per il bis, nel quale il maestro ha tirato fuori la sua vena più dolphiana. Per il resto le sue note “old and new dances” hanno come sempre catturato il consenso dell’uditorio, grazie anche al finissimo lavoro di Damiani presente anche in veste di compositore, e della ben nota competenza ritmica di Fioravanti.

Il sestetto Kind (trombone, clarinetto, alto e fagotto, violoncello, contrabbasso e batteria), guidato da Jan Klare, ha eseguito un jazz tipicamente europeo, dalla buona carica ritmica, con collettivi di improvvisazione dei fiati. Da segnalare un duo tra la virtuosa violoncellista e il contrabbassista.

Ma il concerto che più ha sorpreso durante la prima serata è stato quello del quartetto Weavers della pianista Makiko Hirabayashi, con Fredrik Lundin al sax tenore e soprano, Thommy Andersson al contrabbasso e Bjørn Heebøll alla batteria. Giapponese, di base ad Amsterdam, spesso in tour con Marilyn Mazur, la pianista ha reso un sentito omaggio alla musica di Händel, partendo da un lavoro improvvisativo di rara finezza che conduceva a momenti tematici di pregnante dolcezza, eseguiti da un gruppo di altissimo livello qualitativo, unito da un magico interplay. Da ricordare il suono del tenore, la tecnica classica della leader, la fantasia del batterista che ricordava a tratti gli stili di Michele Rabbia e Zlatko Kaučič.

La seconda giornata, iniziata con una mattutina “Improvisation for…” di Louis Sclavis presso la Dominikanenkirche, è poi proseguita con due set presso la Kleines Haus. Il primo dei due ha fornito l’occasione di riascoltare, con un suo progetto, la trombonista Nabou Claerhout, con Reinier Baas alla chitarra, Glenn Gaddum al basso e Jamie Peet alla batteria. Il suono caldo e avvolgente del trombone, una ritmica perfetta per il contesto e la chitarra di Baas determinante – con ampio spazio per sé e capace di imprimere una sua direzione alla musica – le caratteristiche principali del lodevole set, con composizioni principalmente della leader e del chitarrista. Un uso moderato dell’elettronica per un jazz avanzato e creativo, con ampio spazio per l’improvvisazione.

Si temeva non dovesse arrivare per una indisposizione, ma ad alcuni minuti dall’inizio del set avviato dal suo trio (Siebren Smink-chitarra, Matteo Mazzù-basso, Ludvig Søndergaard-batteria), la pianista sudcoreana Chaerin Im, anche alle tastiere e al synth, ha proposto una fusion debitamente aggiornata e di grande qualità, fascinosa e suadente, creativa e mai banale, ospitando negli ultimi due brani del set il sassofonista Matteo Ricci, già ascoltato il giorno prima nella Brainteaser Orchestra, che ha suonato anche nell’ultimo disco della formazione, contribuendo con il suo suono caldo e un fraseggio efficace.

La Grosse Haus ha ospitato i successivi quattro concerti. Dalla Spagna, il flamenco jazz del sestetto del pianista Daniel García Diego (Delaram Kafashzadeh-voce; Miron Rafajlović-tromba; Reinier Baas-chitarra; Arin Keshishi-basso; Shayan Fathi-batteria). Belle atmosfere, suono sabbiato della tromba in buona evidenza, buon utilizzo dell’elettronica e dell’apporto vocale, grande spazio per Baas, il leader convincente al pianoforte e al piano elettrico, per una musica delicata, che ha lasciato il segno. Il pianista è successivamente tornato sul palco in sostituzione della prevista Chaerin Im in seno al trio del contrabbassista Jasper Høiby, con Jamie Peet alla batteria, tirando fuori tutta la sua vena più schiettamente jazzistica, maturata in anni di studio a Boston con Danilo Perez. Chi già conosceva Høiby sapeva di poter riascoltare uno dei migliori contrabbassisti europei, e ne ha avuto ampia conferma. Il pianista si è integrato compiutamente nel trio, fornendo il suo apporto alle composizioni ispirate e intense, nelle quali il contrabbasso del leader spiccava per velocità ed eleganza. Uno dei brani è stato dedicato da Høiby alla tragedia palestinese.

Resta da dire dei due ultimi concerti della giornata. Il duo “Altera Vita” di Alina Bzhezhinska (arpa) e Tony Kofi (tenore), ha proposto un esplicito, tenero e commovente omaggio ad Alice Coltrane e Pharoah Sanders. Due straordinari musicisti, estremamente affiatati, con il suono aereo dell’arpa che si coniugava mirabilmente con quello caldo e profondo del sassofonista, che ha suonato anche una kalimba e piccole percussioni. Un set di incontrastata bellezza, da togliere il fiato, con in repertorio una suite in sei movimenti e un bis sulle note indimenticabili di Journey in Satchidananda.

Il concerto finale era affidato al nuovo quintetto “India” di Louis Sclavis (Olivier Laisney alla tromba, Sarah Murcia al contrabbasso, Benjamin Moussay al pianoforte, Christophe Lavergne alla batteria). L’intesa tra Sclavis e Moussay risale al disco Ecm del 2024, «Unfolding», registrato in duo, e ancora prima a «Characters On A Wall», ove erano presenti anche la contrabbassista e il batterista, mentre nuovo alla corte di Sclavis, almeno discograficamente, è il formidabile trombettista. Un nuovo splendido capitolo del “folklore immaginario” infuocato e gentile, creativo e sempre nuovo di Sclavis, in piena forma, con composizioni intense e brucianti, e largo spazio al trio, che potrebbe già essere un gruppo a sé, con Moussay a guidare il gioco da maestro. Lavergne, dal canto suo, è stato protagonista di un assolo memorabile ed entusiasmante.

L’ultima giornata del festival è iniziata nello spazio spoglio della Dominikanenkirchen, che al centro ospita l’opera del 2018 di Gerhard Richter “Two Grey Double Mirrors for a Pendulum”. Al centro della chiesa sconsacrata oscilla un pendolo, e dal movimento e dal riverbero naturale Tony Kofy ha tratto ispirazione per il suo assolo improvvisato condotto sui sentieri della respirazione circolare, dei glissati, del blues, dell’esplorazione dei diversi registri dello strumento, in una vera magnificazione del suono del sax tenore.

Chi scrive ha poi seguito i concerti della Grosses Haus, iniziati dalla pianista e cantante Clara Haberkamp, premio Westfalen-Jazz 2025. Accompagnata da ottimi strumentisti (il contrabbassista Oliver Potratz e il batterista Jarle Vespestad), tocco classico e delicato, repertorio di qualità – una canzone già nel songbook di Marlene Dietrich, un classico pop come You Could Read My Mind di Gordon Lightfoot, una versione cantata con voce dolce e suadente di Danny Boy – per un set tutto giocato sulla finezza delle sfumature.

Atmosfere e musica totalmente differenti dal trio francese, nel quale i fratelli Ceccaldi, Theo al violino e Valentin al violoncello erano insieme al clarinettista Yom, nel progetto “Le Rythme du Silence”. Una meditazione in musica, profondamente intrisa di un senso di pace, per niente legata all’estetica jazzistica ma ugualmente caratterizzata da ampi spazi improvvisativi modali di ciascuno. Gli archi dei due fratelli facevano da bordone al suono del clarinetto, che fra crescendo e diminuendo entrava e usciva da temi di atmosfera orientale, soprattutto indiana, in una sorta di trance musicale estremamente avvincente, tra il silenzio e l’assoluto. Tecnica sopraffina, respirazione circolare, stazioni tematiche a tratti mosse e danzanti su arpeggi di grande suggestione, per un set molto apprezzato dall’uditorio plaudente.

Xhosa Cole al sax tenore, con il veterano Pat Thomas al pianoforte, Josh Vadiveloo al contrabbasso e Tim Giles alla batteria, con il suo “Freemonk” ha condotto un omaggio alle composizioni di Thelonious Monk testimoniando l’estrema vitalità della odierna feconda scena londinese. Focosa creatività, supporto solidissimo del pianista e ritmica agguerrita ed efficace, per incursioni fra alcune tra le più note composizioni monkiane, da quelle ritmate a quelle d’atmosfera, eseguite senza alcun timore reverenziale, con un timbro e un fraseggio radicati nella migliore tradizione del sax tenore.

Finale festoso con l’etno-jazz del marimbista Andrés Coll, anche buon pianista, sul palco insieme a Majid Bekkas (voce, guembri, kalimba), Mateusz Smoczynski (violino), Ramón Lopez (batteria, cajon). La musica si basava felicemente sui ritmi gnawa sostenuti dal guembri di Bekkas, impegnato anche al canto, con la potente e fantasiosa spinta del batterista. Coll, giovane e spigliato allievo di Joachim Kühn, pieno di contagiosa energia, ha suonato anche le nacchere in duo con la batteria di Lopez e in un brano si è spostato al pianoforte, imprimendo alla musica direzioni diverse, gradevolissime, distanti dalla tradizione gnawa.