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Intervista a Toti Cannistraro

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Toti Cannistraro (Palermo, 1957), è una figura molto importante della scena musicale siciliana e nazionale. Dopo un’intensa attività di tour manager, da alcuni anni è impegnato nella gestione del jazzclub palermitano Tatum Art, uno spazio intimo e funzionale nel centro storico, che produce una costante offerta musicale, ed è diventato un importantissimo luogo di incontro per appassionati e musicisti, come pochi sul territorio nazionale.

A Cannistraro abbiamo chiesto di raccontarsi, nella convinzione che la sua avventura nell’ambiente jazzistico sia di grande interesse per chiunque sia vicino a questa musica.

Quando, come, e perché hai pensato di dedicare la tua vita al jazz?

Ho avuto l’illuminazione entrando una sera al jazzclub in via Duca della Verdura (il Brass Group). Poi cominciai ad appassionarmi e comprare dischi. Un anno prima avevo iniziato a prendere lezioni di pianoforte da Tony Vella, che era forse, tra i musicisti di quella generazione, il più serio, l’unico che aveva delle cognizioni orchestrali e di arrangiamento. Tony riuscì a trasmettermi tutto questo, sul piano della mia attività musicale. Parallelamente mi sono appassionato al jazz, e questa passione dura da cinquant’anni, dal 1974. Fu subito dopo la morte di mio fratello, che mi aveva già trasmesso i prodromi del jazz, e che morì ascoltando un disco di John Surman con John Taylor al pianoforte.

Questi sono il quando e il come. E il perché?

Non c’è un perché. Le cose succedono. Avevo intravisto una possibilità di fare musica, mi ero appassionato, pur sapendo già che a diciannove anni sarei entrato in banca perché avrei preso il posto di mio fratello che a sua volta aveva preso il posto di mio padre (una doppia disgrazia!), e mi formai in un modo alternativo alla vita da burocrate, pensando che era più interessante vivere d’arte che di scartoffie.

In banca quanto sei rimasto? Quanto hai resistito?

Ho resistito ventisette anni, di cui gli ultimi cinque proprio quasi inesistenti, perché contemporaneamente facevo il lavoro di tour manager. Non riuscivo più a conciliare le due cose, e mi sono dimesso.

Il lavoro di tour manager in che anno iniziò?

Nel 1999.

Come mai ti venne quest’idea?

Molti sanno della mia amicizia con Kurt Rosenwinkel. C’eravamo frequentati per dieci anni. Io gli ho prestato i soldi per il suo primo disco importante inciso per la Verve, «Enemies of Energy», quello in cui riponeva tutte le sue potenzialità più compositive che strumentali. Essendo un chitarrista spettacolare, che realizzava composizioni un po’ visionarie, non riuscì subito a trovare un’etichetta, ed era piuttosto disperato. Ero andato a trovarlo a New York, e gli dissi che gli avrei fatto un prestito. Così riuscì a fare il disco, e dopo due anni mi ha restituito i soldi. Quindi in quegli anni, attraverso dei contatti che avevo avuto in Italia, sapendo che Kurt era già un po’ conosciuto perché aveva già suonato in Italia e chiunque lo avesse ascoltato si era accorto del suo talento, non mi fu difficilissimo mettere su un tour sperimentale di sette date. Devo dire che erano anche altri tempi, molto più semplici.

Per quali aspetti?

I soldi erano distribuiti un po’ meglio di ora, culturalmente c’era più attenzione verso l’arte, anche politicamente si respirava aria migliore. Venticinque anni fa c’erano meno problemi di adesso, forse meno debito pubblico, che c’è sempre stato, ma gli anni Novanta non erano anni bui. Certo, ero un freelance, e approfittavo del fatto che ero solo. Avevo un’azienda in cui esistevo solo io, non avevo pesi di tipo aziendale, mia madre mi preparava le agibilità, sbrigava lei tutto il lavoro burocratico. Io chiamavo i musicisti, facevo loro da driver, tour manager, road manager, facevo tutto il resto.

Il famoso pulmino…

Avevo un Vito Mercedes nuovo che avevo comprato, utilizzato per il primo tour con Kurt. Dopo due mesi sono andato a New York e Kurt mi disse: senti, ma perché non porti tutta l’avanguardia americana, i miei amici in Italia? Così mi presentò una serie di musicisti importanti, fra cui Seamus Blake, Ethan Iverson, Reid Anderson, che erano giovani e poco conosciuti in Italia, anche se erano musicisti già maturi. Ho avuto nove mesi di tempo per organizzare i primi tour, e in un anno feci i primi invernali nella stagione dal 2000 al 2001. Portai i primi gruppi, tra cui c’era sempre qualche musicista conosciuto, mentre molti erano musicisti che ora sono semi star o star, ma allora non li conosceva nessuno. Per esempio i Bad Plus. Il primo anno di attività feci l’Ethan Iverson Trio, con Reid Anderson e Billy Hart, nome che mi agevolò nella vendita. Poi cominciai a vendere a pacchetto, cinque concerti, uno al mese, con offerte vantaggiosissime, perché io comunque ero molto competitivo, andavo al massimo della qualità, ma senza passaggi intermedi. Ho quindi preso un mercato ampio, facendo quasi tremila concerti, circa 200-220 all’anno. Ho avuto una parabola ascendente sino al 2008, poi dal 2009 sempre lievemente in calo, sino allo stop per la pandemia, quando sono stato quattro anni fermo. Ora sto riprendendo. Quest’anno ho fatto due tour, uno con Aaron Goldberg Trio e uno con Toninho Horta in quartetto. Voglio partire con calma, però. Sono contento di aver chiuso un tour per il prossimo marzo (ora si deve organizzare tutto molto tempo prima per accedere ai contributi ministeriali, tutti fanno le domande entro gennaio) con Kevin Hays, Alex Claffy e Eric Harland.

Nel frattempo tutti questi musicisti hanno superato i cinquanta…

Sì, Kevin ha cinquantasei anni, Eric quarantasette, l’ho conosciuto che ne aveva venticinque.

Bene, passiamo all’altra idea dei locali a Palermo.

Tutto si avvia quando inizia la parabola discendente, dipesa da tanti fattori (in questo, come in tanti altri lavori, l’economia è cambiata nel 2008, si è creato un vortice discendente inarrestabile). Si risente sempre di aspetti politici, economici, anche in campo artistico. Ci sono state delle disavventure, ho aperto una scuola, un po’ all’americana, approfittando di questo grande numero di musicisti che mi giravano attorno, per fare seminari, concerti, una scuola che avesse un indirizzo più aperto. Solo che poi si aprirono i corsi al Conservatorio, che davano un titolo, e la scuola cominciò ad andare in declino economicamente, non riuscivo più a supportare la scuola con i tour. Ho anche avuto delle disavventure a Castellammare del Golfo, non mi hanno pagato una stagione e ho perso 50.000 euro. Nel 2012 ci furono problemi con la Regione, e molti operatori si sono impoveriti. Una serie di eventi che portarono alla chiusura della scuola, la diminuzione dei tour, così decisi di fare degli house concerts a casa, poi dopo due anni avviai un house concert su strada, che invece poi diventò un locale a tutti gli effetti. Infine nel 2017 aprii questo locale (il Tatum Art), due anni e mezzo prima della pandemia. Pandemia che ha avuto degli effetti che forse oggi non si considerano abbastanza, ma ha creato un disastro nel mondo artistico, producendo danni incalcolabili, anche non palpabili. È stato un cambiamento totale, e adesso tutto ciò che regola i concerti è più fiscalizzato, c’è molta più burocrazia. Un operatore culturale, artistico, è sottoposto a impegni di tipo burocratico tra bandi, rendiconti, cose che fanno aumentare i costi a causa di impegni che non si addicono a chi vuole fare l’organizzatore artistico.

Come hai affrontato e superato la fase terribile della pandemia?

Beh, insomma, perdendoci soldi, anche se paradossalmente ci sono stati più ristori per le attività artistiche che per quelle di ristorazione e di bar. Se fai jazz da privato hai dei costi che devi necessariamente supportare con attività di ristorazione e bar. È veramente difficile portare avanti un’attività del genere. Infatti mi sono pentito di aver aperto un locale pubblico, avrei fatto una cosa più privata, magari più associativa.

Ricordo alcune tue importanti stagioni estive alla Tonnara Bordonaro, spazio che mi pare oggi sia abbandonato…

Sì, oggi quello spazio è completamente abbandonato, ci sono stati grandi anni dal 2006 al 2010.

Poi hai fatto anche rassegne estive in altri spazi cittadini.

Sì, alla GAM, due-tre stagioni, e alla Terrazza di Palazzo Fatta, ma sempre da privato.

Questa città non offre spazi pubblici per la musica?

Questo è il periodo più buio della politica siciliana che io ricordi, perché sembra che siano tutti arroccati in un fortino, ma spudoratamente si spartiscono i fondi senza curare minimamente la città. Orlando anni fa faceva Manifesta, realtà che ha portato turismo buono, intellettuale, artistico, il tipo di turismo che auspicabilmente Palermo dovrebbe avere essendo una città d’arte, da riscoprire. Invece dopo Manifesta c’è stato il vuoto.

Quali programmi hai per il futuro?

Vorrei vivere più tranquillamente, sto riprendendo i tour, vorrei fare tante piccole cose, tra cui liberarmi della gestione del Tatum Art, nonostante il fatto che per Palermo e per i musicisti sia diventato un punto di riferimento imprescindibile. Vorrei che continuasse a essere attivo senza che io sia coinvolto nella gestione, occupandomi solo della direzione artistica.

Un’ultima domanda: da alcuni anni ti vedo impegnato a favorire le nuove leve: mi vengono in mente due nomi, Alessandro Presti e Joe Santoro, il primo un trombettista che hai affiancato a Eddie Gomez e oggi suona ovunque con i suoi gruppi, e il secondo un giovanissimo batterista che hai affiancato a importanti musicisti statunitensi come Aaron Goldberg. Questa mi pare una novità interessante, iniziare a lavorare sul ricambio generazionale, per garantire lunga vita a questa musica, no?

Sì, Alessandro Presti e Joe Santoro sono i musicisti per cui ho fatto di più, il primo circa 10-12 anni fa e l’altro in questi ultimi due anni. Qualcosa in passato ho cercato di fare anche per Mauro Schiavone, e adesso che sto ricominciando mi piacerebbe riprendere questa attività di talent scout, e proporre in Italia alcuni giovani musicisti statunitensi. Per esempio, ad aprile prossimo ci sarà il trio di Micah Thomas, che in America è già accreditato come uno dei pianisti del futuro, mentre in Italia, a parte alcune recenti apparizioni a Perugia e Spoleto, lo conoscono ancora in pochi. È un pianista molto interessante, e spero di fare con lui la stessa cosa che feci con musicisti come Aaron Golberg, Kevin Hays, Bill Carrothers, artisti che adesso sono di primo piano.