Home Interviste Intervista con Rossana Casale

Intervista con Rossana Casale

85
0

L’intervista con Rossana Casale si è svolta al telefono, durante due trasferimenti in macchina, il primo per raggiungere Roma, da Viareggio e il secondo per ritornare in Toscana, dopo una giornata al conservatorio di Parma. La cantante ha dimostrato una notevole disponibilità a illustrare il suo pensiero, a raccontarsi e a fornire ulteriori spiegazioni, se necessario, malgrado la situazione non proprio ideale, con le gallerie autostradali che ogni tanto impedivano la comunicazione…. Ecco com’è andata.

Cominciamo a parlare di “Trialogo” il disco inciso insieme a Grazia Di Michele e a Mariella Nava, pubblicato in aprile. Ho letto che le canzoni sono nate per la maggior parte dallo scambio di spunti, di intuizioni, che poi sono confluite in brani strutturati dal contributo reciproco. Come è stato possibile mettere in sintonia tre musiciste con concezioni musicali e stili abbastanza differenti?
È stato un lavoro abbastanza difficile, soprattutto all’inizio, perché bisognava conciliare tre diverse personalità artistiche con la loro storia e le loro peculiarità. Io, in un certo senso, ho messo da parte, o meglio l’ho lasciata in un angolo, la mia anima jazzy. Le altre, di loro, hanno rinunciato a qualcosa, giocoforza. Ci siamo ritrovate, perciò, su una comune (come proiezione) area etnica. Da lì siamo partite per effettuare una elaborazione lunga e complessa che ci ha impegnato in telefonate chilometriche, in scambi di messaggi via whatsapp, in chat… utilizzando tutti quei mezzi che ci potevano consentire di comunicare, visto che il periodo di lockdown ci impediva di incontrarci di persona.

È stato più facile trovare un accordo sui contenuti testuali o sui passaggi musicali che potevano accompagnare le parole dei vari brani?
Non mi è facile rispondere a questa domanda. Un aspetto è andato dietro all’altro. Sulle tematiche da affrontare eravamo abbastanza in accordo, e anche sui messaggi da trasmettere, o meglio sulla posizione da prendere attorno ad alcune problematiche. Non volevamo, però, cadere mai nel banale o nel già detto da qualcuno magari in una determinata maniera. Così c’è stato un certo travaglio, a volte, per uscire soddisfatte da un passaggio, dopo averne discusso a iosa. Il primo brano composto in trio è “Segnali universali” ed è già un biglietto da visita non di poco conto. È la prova provata che ce la potevamo fare a collaborare a sei mani per allestire un album collettivo. In più come segni di stima e di riconoscimento reciproco, nel disco, ognuna interpreta pezzi scritti da un’altra. Questo ci ha rinforzato nella convinzione di aver seguito la strada giusta. Come ciliegina sulla torta, se così si può dire, ha ricucito tutto con arrangiamenti semplicemente perfetti, Phil De Laura, il valore aggiunto dell’intera operazione.

Come si è svolto il tour delle tre Cantautrici. Ci saranno ancora alcune date?
Abbiamo ipotizzato di effettuare questo tour parecchio tempo fa, mentre preparavamo il cd. Non abbiamo potuto realizzarlo prima per i noti motivi. La tournèe, fino ad oggi, è andata bene. Adesso abbiamo ancora date in programma sino a fine settembre e altri appuntamenti sporadici in seguito, uno all’estero, fra l’altro, in Albania, a Valona, in dicembre. Nel concerto ognuna canta i suoi cavalli di battaglia, sono in primo piano le canzoni di “Trialogo” e ci sono altre sorprese.

Non è una vera novità l’associazione di cantautori. Basti pensare a Dalla-De Gregori insieme a Ron, a De Gregori, Pino Daniele, la Mannoia e ancora Ron e alla ricostituzione di Theorius Campus (Venditti e De Gregori) ancora questa estate. E’ particolare, però, l’aspetto che la vostra collaborazione sia anche autoriale, non solo di riproposizione di una sorta di best of…
Sì, è proprio questa la difficoltà che sta dietro a “Trialogo” e il suo fascino. Dopo questa esperienza, però, ripartirò con il mio gruppo abituale per un omaggio a Joni Mitchell, un progetto a cui tengo molto. Le altre faranno lo stesso. Ciascuna delle tre continuerà il suo iter individualmente, come è giusto che sia…

Da Billy Holiday (il disco “Billy Holiday in me” è uscito nel 2004) a Joni Mitchell, perciò, quali affinità hai colto fra le due grandi cantanti?
La parentela fra le due grandi cantanti è in me, nella mia esperienza. Voglio dire che entrambe hanno contato molto nella mia formazione. Io ho ascoltato e studiato approfonditamente queste artiste come altri personaggi, al fine di creare una mia voce, un mio suono, affinché ascoltandomi, subito io possa essere riconosciuta. Per il tributo a Joni Mitchell, poi, non solo mi sono documentata su tutti i dischi che ha inciso, ma ho cercato anche le interpretazioni di suoi pezzi da parte di rinomati jazzisti, e non solo. Mi viene subito da citare Brad Mehldau che ha dato una versione di “Don’t interrupt the sorrow” perfettamente in linea con la mia visione del repertorio della cantautrice canadese.

Fra le molte collaborazioni che puoi vantare, oltre a quella con Grazia Di Michele e Mariella Nava, quali ti hanno dato di più dal punto di vista artistico?
Tutti gli incontri, le collaborazioni che ho vissuto mi hanno arricchito in qualche modo. Penso ai lavori con la Bertè, a Mia Martini, alla PFM. In campo jazzistico la figura più influente è stata quella di Luciano Milanese, ma successivamente Riccardo ZegnaAldo Mella…Ognuna di queste persone ha significato molto per me. Da corista quale ero ho imparato a stare in scena, a diventare attrice delle mie canzoni. Voglio dire che ho dovuto interpretarle non solo con la voce per poter veicolare le mie emozioni al pubblico. Ci sono stati banchi di prova importanti nel mio excursus, come quando mi sono confrontata con Gaber nello spettacolo “Il signor G e l’amore”. In questo caso mi è stato di grande aiuto e stimolo l’attore Carlo Reali che mi ha suggerito: “Lascia fare a Gaber…”Nel senso di non aggiungere o cambiare nulla. Rispetta quello che devi recitare e cantare senza stravolgimenti o personalismi.

Quali ritieni siano stati i momenti più alti della tua carriera artistica, fino a questo momento?
Cito tre dischi in particolare “Jazz in me” perché significava, allora, rileggere un certo numero di brani che amavo molto del mio genere musicale preferito. Poi metterei il già ricordato “Il signor G e l’amore“, una vera e propria sfida. Infine ricorderei “Circo immaginario“, composto sulla suggestione del libro scritto da Sara Cerri. Qui è in risalto la mia figura di autrice, più che quella della vocalist.

Provando a fare un bilancio professionale, pensi di aver ricevuto, in generale, dal pubblico o dalla critica quanto ti aspettavi o ti senti in credito?
Io ho sempre fatto delle scelte artistiche. Non ho mai cercato di andare verso il gusto corrente, di far presa sulla gente in un certo modo, scegliendo scorciatoie per arrivare al successo commerciale. Ho, invece, tentato di portare il pubblico verso di me, ad apprezzare le mie canzoni. Questo tipo di prospettiva ha pagato, ma, ovviamente, non ho raggiunto il livello di una risonanza popolare esagerata. A me, però, sta bene così. Io rivendico la mia coerenza e la mia onestà di fondo.

Ritornando alle tue radici jazzistiche, come vedi le nuove leve del jazz italiano e in generale la situazione del jazz in Italia?
Stimo molto Carlo Atti e anche Gianluca Petrella della nuova generazione. Penso, però, che i jazzisti, soprattutto i giovani, non abbiano tante occasioni per farsi conoscere. Alcune rassegne riducono il budget o chiudono e, quindi, mancano, per molti musicisti, le chiavi adatte a uscire fuori dall’anonimato. La mia formazione abituale, inoltre, è fatta di musicisti eclettici, trasversalmente jazzisti, ma non limitati a quel campo. Nel senso che sanno suonare tutti i generi con disinvoltura.

Tu sei anche insegnante in conservatorio. Quale cultura musicale possiedono i tuoi allievi?
La cultura musicale dobbiamo trasmetterla noi docenti. Gli studenti sono a digiuno o quasi di molti maestri della canzone italiana, ad esempio. Salvo eccezioni conoscono solo quello che passa in tv. Avevo una allieva al primo anno impostata sul canto soul o sul punk. Le ho fatto ascoltare De Andrè. Inizialmente non riusciva a cantarlo. Essendo siciliana, le ho proposto di riappropriarsi del suo dialetto e di sentire Rosa Balistreri, caposcuola del folk della sua isola. Piano piano questa giovane, con progressi successivi, è riuscita a entrare in De Andrè, ma è stato un cammino lungo e difficile. Noi insegnanti dobbiamo offrire, perciò, un ventaglio di possibilità e provare a far intendere e amare i nostri punti di riferimento, i nostri modelli.

Oltre al disco-tributo a Joni Mitchell, quali altri progetti hai in agenda?
Sto maturando l’idea di un album di inediti. Se tutto va bene sarà pronto nel 2023 o l’anno dopo. E poi? Potrei anche fermarmi. In fondo ho fatto il pop, il jazz, il teatro-canzone…Sono stata protagonista in programmi tv, ho dato tanti concerti. Non vorrei rimanere sulla scena o sulla breccia fino ad ottant’anni….

L’auspicio è, per contro, che Rossana Casale continui a incidere e a cantare davanti ad una platea gremita ancora per tanti anni. La competenza e la passione che riversa nella sua attività sono veramente ammirevoli. Il jazz, il pop e la canzone d’autore traggono vantaggio dalle sue iniziative artistiche. Non ci sono dubbi in proposito.