In occasione dell’uscita dell’album “Tributes” con John Patitucci al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria, abbiamo incontrato il pianista Antonio Faraò, eccellenza del jazz internazionale.
“Tributes” è il tuo primo album per la Criss Cross Jazz, etichetta leggendaria. Come vi sei approdato?
Sì è il mio primo album per la prestigiosa etichetta Criss per questo ringrazio Alex Sipiagin per aver creato questa connessione, il produttore Jerry Teekens e il coproduttore Christophe Besson, senza il suo supporto sarebbe stata difficile la realizzazione di questo progetto.
L’album si ispira a icone a cui hai voluto effettuare dei tributi. Ne vuoi citare qualcuno?
Erano due anni che pensavo di dedicare un album ad alcuni grandi musicisti, con i quali ho collaborato in passato, che purtroppo non ci sono più, e soprattutto con i quali ho avuto un grandissimo feeling artistico e umano. Tra questi musicisti ci sono Didier Lockwood, Michel Petrucciani, McCoy Tyner, Wayne Shorter, Chick Corea etc…
John Patitucci e Jeff Ballard, come viaggiare in business class. La fluidità esecutiva, l’incredibile simbiosi armonica, ritmica e melodica si evince in ogni momento. Ci racconti innanzitutto la scelta dei tuoi compagni di viaggio e poi l’esperienza effettuata?
La scelta dei musicisti è legata ovviamente al progetto in quanto, sia Jeff che John hanno collaborato per diversi anni con Chick Corea, e John con Wayne Shorter, mio riferimento da anni.
Ho avuto diversi trio, con qualcuno ho avuto modo di costruire una intesa alta investendo tempo, con qualcun altro, come in questo caso, non abbiamo avuto molto tempo ma, essendo composto da musicisti di grande levatura mi aspettavo che funzionasse, e così è stato. In questi casi, è importante che ognuno rispetti la personalità dell’altro, sei in un nuovo contesto ma devi avere flessibilità, duttilità. Come detto, puoi avere formazioni con cui far crescere un progetto e situazioni più “one shot” in cui il rischio di incompatibilità esiste ma, dati i nomi, è comunque molto basso. Abbiamo suonato una o due take per brano, ci siamo trovati spesso dinanzi alla cosiddetta “buona la prima”. E’ stato anche d’aiuto il fatto che come forma i brani non sono complessi mentre può essere magari complesso eseguirli però offrono spazio alla creatività di tutti. Mi è piaciuto molto alternare, nella composizione, brani più soft a brani più aggressivi, il che ha aumentato l’opportunità espressiva di ognuno. Ad esempio, in “Eklektik”, il repertorio era più strutturato, complesso nella forma e, quindi, lasciava forse meno spazio alla creatività del singolo. Pensa che “Tributes”, il primo brano, è nato durante un soundcheck al Blue Note di Milano. Poi l’ho sviluppato e l’ho voluto così dedicare a vari artisti come McCoy Tyner che amava la famiglia, lo diceva spesso alla fine di un concerto, e in questo mi ci ritrovo sicuramente. Così come “Memories of Calvi”, festival francese in cui fui chiamato inizialmente nel gruppo di Boltro, poi ci sono andato frequentemente avendo l’opportunità di conoscere molti musicisti della scena francese, come Dedè Ceccarelli, o Didier Lockwood e Michel Petrucciani a cui il brano è dedicato.
Quando scrivi, è una connessione con elementi della tua memoria o una risultante verso un oltre a cui guardi?
Quando scrivo mi ispiro molto al passato, alla mia infanzia, all’adolescenza, non mi ispira il futuro, potrebbe ispirarmi il presente ma è abbastanza raro…
Hai una formazione classica, ritieni che influenzi la scrittura e/o l’interpretazione?
Sicuramente la formazione classica mi ha dato degli input, specialmente il periodo al quale si spirano molti jazzisti come Bartok, Stravinskij, Debussy, Ravel etc.. Dei grandi geni attuali mi ispira molto John Williams.
I tuoi trio sono sempre stati con nomi eccellenti, indiscutibili. Con quale ritieni di aver avuto una maggiore sensazione di amalgama a 360°?
Ogni trio col quale ho inciso pur essendo stata un’esperienza diversa e intensa ho sempre cercato comunque ritmiche Straight e Open allo stesso tempo. Quello che poi si può riscontrare un po’ nei miei dischi.
Il concerto che ti ricorderai sempre…
Sarebbe riduttivo citarne uno soprattutto dopo più di quarant’anni di carriera… Sicuramente i concerti fatti con Benny Golson, incredibile musicista e compositore oltre ad essere una persona splendida.
L’incontro che racconti se ti si chiedesse “Qual è l’incontro che vorresti raccontare?”
Sicuramente l’incontro con Wayne Shorter, Herbie Hancock, McCoy Tyner, Didier Lockwood etc… con questi grandi artisti i dialoghi non sono mai scontati oltre all’esperienza che trasmettono dal punto di vista artistico e umano di grande intensità.
E c’è qualche momento in cui hai detto “mannaggia”….
Eh, sì, tante volte. Ad esempio, per me era un sogno suonare con Wayne Shorter e ci sono riuscito in occasione dell’International Jazz Day, a Parigi, nel 2015. Ma poi non sono riuscito più a suonarci così come avrei tanto voluto incontrare Tony Williams, ma non è purtroppo accaduto.
Oggi si avverte una cospicua ripresa, si nota anche nei contenuti?
Sai, il fatto che ci sia tanta tecnologia, per non parlare adesso dell’intelligenza artificiale, i social con i loro numeri, rendono aspetti propri dell’artista anche secondari, l’immagine conta molto pertanto la creatività può venirne meno. Il jazz va oltre questi aspetti, è una musica che devi assimilare, io mi tiravo giù i soli dalle cassette, bisogna saper lavorare per costruirsi una propria personalità. Ci sono diversi artisti che si sforzano molto, raggiungono anche ragguardevoli livelli tecnici, ma non riescono ad esprimersi nel modo migliore. Bisogna imparare a lavorare su se stessi ma credendoci. Va anche considerato che il jazz riesce a metterti sempre in discussione perché quel che pensi di sapere potrebbe non valere in un altro contesto. Se però hai una predisposizione a crescere, con duro lavoro, impegno, volontà, passione, si raccoglie.
E sui giovani?
Io ho la direzione artistica di Portobuffolè in cui inserisco sempre una band di giovani talenti. Inoltre ho creato un quintetto di giovani, conosciuti durante i vari workshop e con i quali ho costituito una band ispirandomi al quintetto di Jackie McLean dell’album “It’s Time” (Charles Tolliver, Herbie Hancock, Cecil McBee e Roy Haynes). Avendo avuto la possibilità di suonare con due musicisti di quel quintetto (Charles Tolliver e Cecil McBee) ho voluto replicare quell’atmosfera ma con giovani talenti fornendo loro una opportunità di crescita.
Oltre alla promozione dell’album, cosa inizia a “frullare” nella tua testa?
Ho in mente di realizzare il mio primo piano solo e poi di lavorare su un secondo Eklektik.
Prossimi appuntamenti del tour promozionale dell’album?
Sono in partenza per Stoccarda e poi Villach in Austria.