Albinea Jazz 2022
35a Edizione (16-18 Luglio)
il 17 luglio a Villa Arnò
foto di Vilmo Delrio
idendo e scherzando Albinea Jazz ha raggiunto la trentacinquesima edizione, con la regola di basarsi ogni volta su pochi ma significativi concerti, per lo più tenuti nel bellissimo e ampio parco di Villa Arnò. Nel corso degli anni sono passati, sul palco situato sotto le colonne neoclassiche della villa, nientepopodimeno che J.J. Johnson, Sonny Rollins, Wynton Marsalis, Pat Metheny, Steve Lacy e Max Roach, per citarne solo alcuni, dando lustro alla manifestazione svoltasi sempre sotto la direzione artistica di Vilmo Delrio (che fu anche sindaco di questo bel paese in provincia di Reggio Emilia, legato in qualche modo alla figura di Ludovico Ariosto che in quelle colline passò diversi anni della vita).
Il programma s’è articolato in tre concerti principali: il duo composto da Nduduzo Makhathini e Logan Richardson, il 16 luglio alla Cantina di Canali; il quintetto “Sound Prints” di Joe Lovano e Dave Douglas, il 17 a Villa Arnò; e il Jaques Morelenbaum Cello Samba Trio, il 18 al Parco dei Frassini.
Parleremo dell’unico concerto a cui abbiamo assistito, quello del quintetto composto da Dave Douglas alla tromba, Joe Lovano al sax tenore e soprano, Lawrence Fields al pianoforte, Yasushi Nakamura al contrabbasso e Rudy Royston alla batteria, da anni insieme con il nome “Sound Prints” con l’intento di celebrare la musica di Wayne Shorter (il nome del gruppo è volutamente assonante a “Footprints“, celebre composizione di Shorter inclusa nell’album “Adam’s Apple”, Blue Note, 1966).
Il quintetto fu riunito la prima volta nel 2015 per il Festival di Monterey, evento documentato nel disco live “Sound Prints” per la Blue Note, poi seguito da altri due dischi in studio per la Greenleaf (etichetta di Douglas): “Scandal” del 2018 e “Others Worlds” del 2021. Fino a quel punto ne avevano fatto parte la contrabbassista Linda May Han Oh e il batterista Joey Baron, ora sostituiti da Nakamura e Royston, senza comunque che vengano cambiati di molto i connotati della musica (anche se Baron e Royston hanno un diverso approccio verso lo strumento, il primo più poetico e spaziato, il secondo più prosastico e fitto di elementi di tessitura).
Attraverso brani quasi tutti presi da “Other Worlds”, il gruppo ha eseguito con tecnica superlativa un post-bop robusto e verace, che si è sfrangiato a volte in momenti quasi-free avvicinandosi a una sorta di controllata cacofonia, sempre ben regolata in strutture esattamente predeterminate; altre volte invece in momenti di classicità bucolica, spaziata e soave. Il tutto compreso in lunghe e variamente articolate costruzioni che hanno combinato belle tessiture di linee melodiche dagli intervalli avvincenti con ritmi cangianti che arrivano ad astruse complessità e, appunto, passaggi dai toni smorzati e tranquilli, nei quali in genere ha spiccato la fantasia solistica gioiosamente anarchica di Field. Douglas e Lovano si alternano agli assolo, a volte sostenendo l’improvvisazione del compagno con interventi a riff o contrappuntati, con Douglas sempre più “avant” nell’eloquio, mentre Lovano più radicato nella tradizione dei grandi classici del passato, e anche meno audace dello stesso Shorter a cui rende omaggio.