L’approccio di un musicista jazz ad una performance musicale è molto simile a quello di un musicista classico. In molti casi entrambi, infatti, suonano a memoria anche composizioni scritte lunghe e complesse e, quando compare uno spartito, la sua funzione prevalente è di attivare la memoria con stimoli visivi.
In entrambi i casi si tratta del risultato di un processo di studio ma, ad una attenta analisi, evidenzia differenze sostanziali di tipo metodologico con interessanti implicazioni didattiche e soprattutto di carattere pratico per la memorizzazione e l’improvvisazione.
Cercherò quindi di individuare le caratteristiche di entrambi i processi e contestualmente proporre alcuni spunti pratici per affrontare in modo consapevole i repertori e le procedure dell’esecuzione classica e dell’estemporizzazione [1] di una composizione jazz e la successiva improvvisazione.
In entrambi i casi la partitura è il medium attraverso il quale si trasmette l’idea compositiva ed esecutiva ma come sappiamo, trasferendo in musica le riflessioni di McLuhan [2] questo processo non è affatto neutrale ed è anzi determinante nel processo performativo e di apprendimento.
Nella musica classica la partitura scritta rappresenta il testo di riferimento attraverso cui vengono decodificati il pensiero del compositore, le indicazioni esecutive e l’idea musicale. Leonard Bernstein [3] definiva la musica classica “musica esatta” cioè musica scritta esattamente per come deve essere eseguita.
Secondo la teoria audiotattile di Vincenzo Caporaletti, il jazzista ha invece una partitura differente che si collega a supporti analogici e digitali quali il disco [4], la registrazione, il video. Questa nuova “partitura” stabilisce in termini dinamici e l’approccio al materiale compositivo e offre al musicista la possibilità di autografare con originalità la musica. La partitura scritta definisce i parametri musicali ed esecutivi dell’idea musicale del compositore a cui deve attenersi l’esecutore con la possibilità di intervenire soggettivamente in modo molto circoscritto e mirato. I testi audiotattili del jazz, innescano invece un processo diverso nel quale il musicista ha un ruolo interattivo rispetto al contesto musicale e umano. Questi processi specifici del jazz e delle altre musiche audiotattili sono conosciuti come estemporizzazione e improvvisazione [5].
L’estemporizzazione non si riferisce solo alla variazione della melodia di un tema musicale ma anche al rapporto con la pulsazione da cui dipendono lo swing e il groove, agli aspetti armonici, alla scelta dei voicing, all’interplay tra i musicisti e al rapporto con il pubblico. Questo non significa che il jazz non si affida alla partitura scritta ma solamente che la ricolloca in un’altra fase dell’apprendimento e con una diversa consapevolezza. Prendendo a prestito una affermazione del pedagogista Carlo Delfrati [6] si può affermare quindi che “la pratica viene prima della grammatica”. Allo stesso tempo anche gli esecutori classici utilizzano testi e supporti audiotattili.
Sono riflessioni fondamentali che stanno alla base della didattica della musica e che indicano una corretta prospettiva metodologica che può e deve cambiare nei diversi percorsi di studio. Il riferimento alla didattica “dal” jazz implica quindi uno spostamento del focus pedagogico da una prospettiva oggettiva – cioè dal genere musicale, classico, jazz, pop – ad una soggettiva cioè a chi apprende e agli ambienti cognitivi connessi.
Semplificando si può affermare che la “musica esatta” afferisce prevalentemente ad una cognitività visiva e il jazz a quella audiotattile. È estremamente importante individuare le caratteristiche cognitive e linguistiche di entrambi i processi perché essi non si escludono ma si integrano. Tuttavia, è ancora più importante accompagnare lo studente nel proprio processo di apprendimento per generare delle competenze con la consapevolezza di quando si attinge ora alla cognitività visiva ora a quella audiotattile del jazz. Si tratta quindi di un progetto educativo bilinguistico basato sugli aspetti soggettivi di apprendimento e non sulle caratteristiche stilistiche “oggettive” di questa o quella musica.
È evidente che la memorizzazione musicale passa attraverso questi processi e presenta connotazioni simili ma ad un’analisi più approfondita risulta molto diversa se riferita ad un repertorio classico o a quello jazzistico.
L’estemporizzazione e l’improvvisazione jazz hanno quale prerequisito la memoria comprendendo con questo termine un insieme di elementi legati ad abilità, conoscenze e soprattutto competenze. Gli esempi dei maestri del jazz confermano questa ipotesi. Monk [7], ad esempio, non forniva le partiture delle sue composizioni ai musicisti, sia per innescare dei meccanismi interattivi all’interno del gruppo, sia per dare freschezza alle sue composizioni. La stessa cosa avveniva nelle big band, in primis quella di Ellington [8] per gli impedimenti derivati dai frequenti spostamenti, o nei gruppi di Miles e dello stesso Coltrane. Ciò non significa che i musicisti non fossero degli eccellenti lettori ma conferma casomai il fatto che la partitura veniva collocata in una fase diversa del processo performativo e che i diversi repertori erano eseguiti soprattutto a memoria.
Per dare concretezza a queste riflessioni ho provato a scandire lo studio e trascrizione di uno standard:
- Partiamo dalla melodia con l’ascolto di un disco di un certo pregio storico e artistico che ci piace particolarmente. Scegliamo una versione non troppo veloce e ascoltiamo la melodia più volte fino a quando ci è rimasta in mente e possiamo cantarla. Questa, a titolo di esempio, è la versione di “There will never be another you“ di Lester Young del 1952
- Identifichiamo la tonalità di impianto – Eb maggiore – anche aiutandoci con una tastiera – la forma 32 misure e le varie sezioni – ABAC: ripetizioni, ritornelli, ponte, eventuali modulazioni. Non importa capire subito in quale tonalità si sposta ma di percepire in prima istanza la modulazione. In questo brano sentiamo che si modula ad una tonalità quasi identica, infatti, vicina in quanto Ab è una delle tonalità vicine alla tonalità di impianto. Capiamo che è una modulazione in quanto Ab è preceduto dal suo relativo II V [9].
- Sempre con l’aiuto di una tastiera identifichiamo le note e trascriviamo la melodia, individuando gli intervalli, le simmetrie, ripetizioni, le analogie con altri brani. Ciò servirà soprattutto per cogliere le possibili citazioni e i contrafact successivi molto frequenti nel jazz.
- Facciamo caso alle piccole differenze che esistono nell’esecuzione iniziale e finale del tema e che costituiscono di fatto l’essenza dell’estemporizzazione dell’esecutore: spostamenti ritmici, ritardi e anticipi, abbellimenti melodici, blue notes, sostituzioni, accrescimenti o sottrazioni melodiche, dinamiche. Poniamo particolare attenzione al rapporto tra il solista e il resto della band e come interagisce ad esempio il piano o la batteria agli stimoli melodici e viceversa. In altre parole, cogliamo l’interplay tra i musicisti.
- A questo punto siamo in grado di delineare una bozza abbastanza completa della melodia. Non importa per ora trascrivere con precisione i valori ritmici. Può bastare l’indicazione delle note all’interno della battuta. Ricordiamoci di dividere il foglio con una certa precisione grafica e simmetrica. I software di notazione lo faranno successivamente ancora meglio. Occorre però fare attenzione che spesso la melodia inizia in levare – anacrusi – e quindi talvolta il primo rigo avrà 5 battute per poi assestarsi a 4. Non facciamo l’errore di suddividere preventivamente il rigo in 4 battute spostando così le varie sezioni in punti asimmetrici dello spartito come avviene spesso sul Real book. Questa fase è importante per integrare e supportare la memoria con stimoli visivi e aiutare la mente a orientarsi nella forma durante le fasi successive, come ad esempio l’improvvisazione.
- Dopo la melodia trascriviamo quindi i bassi considerando che spesso durante l’esposizione del tema si muovono in due e non sempre rappresentano le toniche degli accordi.
- A questo punto completiamo le voci interne tra la melodia e i bassi. Definiamo cioè le armonie ascoltando sempre il disco di riferimento. In questa fase possono emergere anche delle nostre armonizzazioni che appaiono diverse rispetto al testo audiotattile, la registrazione. Non bisogna preoccuparsi troppo. Appuntiamo più voicing possibili anche alternativi. Saremo sempre in tempo di definire successivamente quello definitivo. Può avvenire spesso che il voicing sia una semplice triade che non comprende settime o intervalli estesi e alterati. Le triadi suonano molto bene e proprio questa loro ambiguità offre ulteriori possibilità all’improvvisazione. C può appartenere infatti alla famiglia degli accordi di tonica maggiore ma anche a quelli di dominante. O ancora può addizionare la nona omettendo la settima. Tuttavia, è importante definire lo stesso il genere di accordo aggiungendo la settima – maggiore o minore – al fine di precisare la scala di riferimento anche se viene suonata una triade o uno slash chord [10].
- La trascrizione è così completata ed il processo di trascrizione ha sviluppato l’orecchio melodico e armonico e reso la memorizzazione più solida e consapevole.
- A questo punto si introduce la partitura scritta scegliendola tra vari fake book. Il confronto tra la partitura e la trascrizione consente così di verificare il lavoro svolto, di individuare gli errori veri e propri e di valutare le possibilità di armonizzazione alternativa.
A questo proposito occorre chiarire un equivoco in merito al fatto che nel jazz non esistano note sbagliate. Affermazioni supportate anche da parte di musicisti autorevoli. Bisogna innanzitutto considerare il contesto artistico di riferimento, l’approccio creativo e di ricerca con le altissime percentuali di rischio che possono prendere i grandi maestri oltretutto in tempo reale. Il concetto espresso è, a mio avviso, che l’improvvisazione non ha limiti di tonalità ed armonia ed è proprio il dialogo musicale tra i musicisti che rende possibile questa libertà espressiva. Tuttavia, nella trascrizione di uno standard come quello preso qui in esame gli errori esistono e debbono essere corretti per non essere memorizzati in modo scorretto e replicati nel tempo. - Il lavoro può concludersi con la trascrizione mediante software informatico per conferire una certa simmetria e una veste grafica più elegante. Questo passaggio oltre ad archiviare digitalmente le proprie partiture serve anche per supportare ulteriormente la memorizzazione. Esistono delle funzioni specifiche del software particolarmente utili a questo scopo. Quando si definiscono le sigle degli accordi, ad esempio, la tonica dell’accordo è definita mediante il grado della scala di riferimento. In tonalità di Eb maggiore la tonica dell’accordo D-7b5 si identifica come 7 perché è il settimo grado della scala. Nella finestra di dialogo poi si definisce la qualità dell’accordo (semidiminuito).
Concludo questo scritto con un ricordo personale che ritengo particolarmente significativo. Una le prime composizioni jazz che ho studiato e trascritto è stata Pannonica di Monk, avevo circa sedici anni. In Italia non esistevano ancora i Real book o, comunque, non ne ero ancora in possesso. La partitura ufficiale infatti riuscii a “rubarla” solo in seguito a Giorgio Gaslini da un fake book americano [11] molto ben fatto ma ormai il pezzo lo avevo imparato a memoria e da allora non l’ho più dimenticato. Quando diversi anni dopo suonai con Steve Lacy, uno tra i più esperti conoscitori dell’opera monkiana, ricordo che apprezzò il fatto che non solo suonassi le sigle corrette ma anche nella posizione scelta da Monk. Durante alcuni concerti con Jerry Bergonzi discutemmo proprio sulla correttezza dell’accordo della quinta battuta che lui interpretava come minore settima cioè Ab-7 in una progressione II V I. Io invece lo suonavo come dominante Ab7 ricordandomi proprio della versione di Monk. Avevamo probabilmente ragione entrambi. Anche nella settima battuta di “Ruby my dear” l’accordo Bb-7 è seguito da A che l’armonia vorrebbe fosse dominante cioè A7 in quanto sostituzione di tritono. Monk invece lo suona con la settima maggiore.
Si tratta ancora di una nota “sbagliata” del jazz? Io non credo.
[1] Caporaletti, Vincenzo, I processi improvvisativi in musica, Un approccio globale Quaderni di Musica/Realtà, 54 Diretti da Luigi Pestalozza, 2005 LIM Lucca LINK
[2] Marshall McLuhan, The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic Man – 1962 Routledge & Kegan Paul
[3] Leonard Bernstein, Giocare con la musica, 2018 Ed. Il castello
[4] Caporaletti, Vincenzo, Codifica neoauratica e post produzione: alcuni effetti sul Jazz LINK
[5] Caporaletti, Vincenzo, Introduzione alla teoria delle musiche audiotattili. Un paradigma per il mondo contemporaneo, Aracne 2019
[6] Delfrati, Carlo, Processo al solfeggio, 2018 Tombolini Editore
[7] Robin D. G. Kelley, Thelonious Monk (Rocky Mount, 10 ottobre 1917 – Weehawken, 17 febbraio 1982). Storia di un genio americano, 2016 Minimum Fax
[8] Duke Ellington (29 aprile 1899 – 24 maggio 1974), Music is my mistress, 1976 Da Capo Paperback
[9] Jim Grantham, Jazzmaster cookbook. Teoria e improvvisazione jazz, 2010 Volontè &C
[10] Mark Levine, The Jazz piano book, 1989 Sher Music Co.
[11] Thelonious Monk (Rocky Mount, 10 ottobre 1917 – Weehawken, 17 febbraio 1982) Fake Book, 2002 Hal Leonard