Perugia, dal 9 al 18 luglio
foto di Giancarlo Belfiore
Non è stata l’Umbria Jazz di sempre quella del 2021, ma al tempo stesso è come se lo fosse stata. Perché, dopo l’annullamento dell’edizione 2020 per covid-19, lo spirito è rimasto il medesimo, nonostante le mille difficoltà organizzative dovute alle restrizioni per la pandemia e nonostante i mille accorgimenti necessari durante la messa a punto del programma (basti pensare alle defezioni dell’ultima o penultima ora, da Tom Jones al duo Edmar Castaneda – Gregoire Maret, da Ben Harper a Gino Paoli, che ha lasciato da solo il pianista Danilo Rea, da Imany ai Cimafunk). Certo, le strade non hanno pullulato di gente, la notte Corso Vannucci è rimasto vuoto perché i concerti gratuiti usualmente tenuti ai Giardini Carducci e in Piazza IV Novembre sono stati aboliti, ma il clima e l’atmosfera sono stati identici, lo spirito del festival probabilmente s’è addirittura rinvigorito, dato che si sono superate brillantemente tutti gli ostacoli, pur se con tante ansie, imbastendo alla fine un programma eccellente come da tradizione della casa.
Dal 9 al 18 luglio i concerti si sono concentrati all’aperto, all’Arena Santa Giuliana (dalle ore 21 in avanti, in genere un paio, sempre anticipati da quello, garbato ed elegante, del duo formato da Francesca Tandoi al canto e piano e Stefano Senni al contrabbasso), e al chiuso, al Teatro Morlacchi, alle 17. Il trio del pianista Emmet Cohen s’è poi esibito tutti i giorni alle 12 e alle 15,30 all’Hotel Brufani, accompagnato a volte da qualche ospite, come il sassofonista Piero Odorici. Da segnalare anche la presentazione alla Sala dei Notari di due libri importanti: “Abbiamo tutti un blues da piangere” del contrabbassista Giovanni Tommaso e “La storia del jazz” di Luigi Onori, Riccardo Brazzale e Maurizio Franco.
Battezzato giovedì 8 luglio con l’anteprima di Mauro Ottolini & Sousaphonix (che abbiamo perso, avendo assistito agli spettacoli solo dal 9 al 15), il Festival è stato inaugurato ufficialmente venerdì 9 all’Arena Santa Giuliana dal trio del pianista Emmet Cohen, lo stesso che sarebbe stato fisso al Brufani, con Phil Kuehn al contrabbasso e Kyle Poole alla batteria. Cohen è fra i giovani più promettenti nel panorama del mainstream jazz statunitense: con molta energia e un approccio felice e solare, concepisce la costruzione degli assolo alla Ahmad Jamal, con improvvisi piano e altrettanto improvvisi forte, cambi di tempo e pause, sorretto da una tecnica ammirevole che sempre ricorda, sia per lontane velate assonanze che per dirette riprese di canonico déjà-vu, lo stride piano, in situazioni che ogni tanto scivolano nel vaudeville. Sua ospite la giovane talentuosa Samara Joy McLendon che, sulle ali dello stile di Sarah Vaughan “gospelizzato” alla Mahalia Jackson, ha eseguito ballad ed evergreen con controllato pathos e ottima dizione.
Sempre all’insegna della tradizione, la serata è continuata con Wynton Marsalis & Jazz At Lincoln Center Orchestra che alla storia del jazz si rifà programmaticamente per perpetuarne i valori formali ed espressivi. Jazz quindi considerato, in una certa qual maniera, alla stregua della musica classica, solo che le partiture di quest’ultima non sono mutabili, mentre Marsalis e la sua scuola non ripropongono i capolavori del passato nota per nota, ma ne cambiano armonie e strutture con arrangiamenti mirati, oppure presentando proprie composizioni originali, pur sempre ispirandosi a Count Basie, Duke Ellington e Dizzy Gillespie (il Dizzy orchestrale). La musica ha offerto grande varietà di soluzioni, un gioco spettacolare delle sezioni, sonorità cangianti con uso delle più diverse sordine, swing all’ennesima potenza e solisti superlativi, primo inter pares lo stesso Marsalis alla tromba, ma anche gli altri trombettisti Marcus Printup e Ryan Kisor, il trombonista Vincent Gardner e i sassofonisti Ted Nash e Sherman Irby.
Il 10 luglio ha aperto la giornata Stefano Bollani in un concerto al piano solo dedicato a Chick Corea (i due avevano suonato insieme proprio a Perugia nel 2009 e sugli schermi giganti dell’Arena, prima della sua esibizione, sono passati filmati di quell’evento). Bollani ha ancora una volta letteralmente strabiliato per tecnica e idee messe in bella mostra con la più estrema naturalezza e sempre con un pizzico di giocoso divertissement, sciorinando brani del repertorio di Corea (“Spain“, “La Fiesta“, “Windows” e un paio dei “Children’s Songs“), oltre che qualche sua composizione (“Il sentiero” e “Come se niente fosse“). Bis cantando con la moglie Valentina Cenni, attrice, per rinverdire i recenti successi televisivi della loro trasmissione “In via dei matti al numero zero“.
A seguire, il quartetto del batterista Billy Hart, uno dei maestri del drumming moderno, oggi ottantenne, ma senza per questo avere perso tocco, timing, swing e propulsione. Il suo gruppo è eterogeneo nella formazione e anche per questa ragione è così potente e policromo: Ethan Iverson (ex Bad Plus) al piano con il suo tocco delicato e dall’andamento classicheggiante (Debussy) fa contrasto con l’irruenza geometricamente scandita di Mark Turner che al sax tenore mescola l’espressività di John Coltrane con la cerebralità di Warne Marsh; il tutto viene regolato da Ben Street al contrabbasso, che fornisce come un orologio un sostegno sicuro e regolare, dialogando con il tempo più elastico di Hart. La musica si snoda in una serie irrequieta di contrazioni ed espansioni armoniche e ritmiche, passando da cupe intimità a concitati fragori.
La domenica dell’11 luglio è stata la giornata della finale del Campionato Europeo di calcio fra Italia e Inghilterra. Anche qui l’organizzazione (con la cooperazione dei musicisti) ha predisposto tutto per il meglio, anticipando i concerti di Enrico Rava in duo con il pianista Fred Hersch e con il gruppo del trombonista a pistoni Dino Piana, e posticipando quello del trio del chitarrista Julian Lage, in modo da poter far seguire al pubblico la partita sui due schermi giganti dell’Arena. Rava e i compagni sono stati eroici a suonare sotto il sole fastidiosissimo del tardo pomeriggio, soprattutto pensando agli ottantun anni di Rava e ai novanta di Piana.
Con Hersh, il trombettista (che negli ultimi anni è passato quasi stabilmente al flicorno) s’è divertito a rispondere alle preziose insinuanti provocazioni armoniche del pianista, prima cercando di arginarle col suo avvincente melodismo, in seguito assecondandole, arrivando così a sublimazioni astratte e deflagrate nell’aria. I due si sono mossi su brani cari a Rava, come “Old Devil Moon“, “Doxy” e soprattutto “Portrait In Black And White” che Rava medesimo presentandolo ha detto essere un omaggio a tre dei musicisti da lui più amati, Tom Jobim che l’ha composto, Chet Baker che l’ha suonato e Joao Gilberto che l’ha genialmente cantato.
Rava è poi passato nel gruppo di Dino Piana per festeggiare i suoi novant’anni, come lo aveva festeggiato partecipando all’incisione del recente disco “Al gir dal bughi“: la formazione è la medesima, a parte Paolo Birro al piano al posto di Julian Oliver Mazzariello, con Franco il figlio di Piana al flicorno, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Si ritorna agli anni Cinquanta e Sessanta, al bop elegante che facevano Gerry Mulligan e Shorty Rogers, al quale proprio Piana assieme a Oscar Valdambrini e Gianni Basso si rifaceva. Piana ha mantenuto scioltezza e una ottima dizione, oltre l’eleganza del procedere e la spinta swingante, con le prese di celebri standard come “When Lights Are Low“, “Dear Old Stockholm“, “Line For Lyons” ed “Everything Happens To Me“.
Dopo la partita vittoriosa dell’Italia, il chitarrista Julian Lage l’ha celebrata degnamente con una musica di spessore, accompagnato dal contrabbassista Jorge Roeder e dal batterista Kenny Wollesen. Il suo stile chitarristico compendia la storia della chitarra jazz, blues e rock in lunghi assolo in cui scatena una grande fantasia che lo porta a inventare di continuo situazioni nuove, cambiando di continuo dinamiche e atmosfere, fra suoni sporchi e grezzi e virtuosismi cristallini che costruiscono passaggi velocissimi e salti intervallari inconsueti, mantenendo sempre una forte tensione e un energico groove.
Il 12 luglio è stato dato spazio alla voce di Cecile McLorin Salvant e al piano di Sullivan Fortner, giovani ma già pieni di medaglie (fra cui anche alcuni Grammy). La Salvant è legata alla più bella tradizione del canto jazz, non solo quello più moderno (per certe inflessioni tipiche di Cassandra Wilson), ma soprattutto classico (Betty Carter e Sarah Vaughan), del blues e del gospel, ma aggiungendovi diversi spiccati accenti personali, in un repertorio di canzoni d’amore del songbook americano, ma anche di Sting, Burt Bacharach, Kurt Weill e Willie Dixon, ben sorretta e stimolata dall’accompagnamento di Fortner, ricco e pastoso.
Tutt’altri territori quelli battuti dal gruppo Bokantè, che in lingua creola significa “scambio”. Scambio di culture musicali, infatti, mescolamenti di generi, canti e balli in un tripudio di festa. Nove musicisti (tre percussionisti e cinque chitarristi, alcuni provenienti dagli Snarky Puppy, e la cantante Malika Tirolien) che incrociano african beat, jazz, pop, soul e folk in un connubio divertente di suoni rasenti la psichedelia.
Il 13 è saltato l’appuntamento all’Arena Santa Giuliana. Già il duo Castaneda-Maret era stato cancellato, poi il concerto del gruppo di Gianluca Petrella e Pasquale Mirra è stato spostato al Teatro Morlacchi, causa pioggia. Petrella (trombone ed elettronica) e Mirra (vibrafono ed elettronica) ripropongono il loro disco appena uscito “Correspondence” con un organico ampliato: aggiunti Riccardo Onori alla chitarra, Blake Franchetto al basso, Simone Padovani alle percussioni, Kalifa Kone al talking drums, n’goni e calabash, Reda Zine al guembri, chitarra, percussioni e voce, DEM al live visual. Musica tribale, fitta di suoni e ritmi che si incrociano in un recupero di un passato ancestrale riproposto con portentosa visione del futuro (splendido l’uso dei marchingegni elettronici), musica diretta verso il cielo, ma con le radici ben piantate in terra: un’amalgama di disparate sonorità e complicati poliritmi si dilata e si contrae in un sommovimento continuo dal cui scintillio malmostoso escono gli assolo di magnifica forza e vigore di Petrella e quelli fittamente ricamati e ossessivamente reiterati di Mirra.
Il 14 si continua con altri grandi del jazz: Brad Mehldau con il suo trio e Brandford Marsalis con il suo quartetto.
Mehldau, quando non è con altri solisti più corposi (tipo Josuah Redman) si lascia più andare verso quella che è poi la sua natura fondamentale, sentimentale e introspettiva. Così è stato con il consolidato trio formato dai compagni di vecchia data Larry Grenadier contrabbassista e Jeff Ballard batterista, con cui ha messo a punto una intesa perfetta. Il pianista, sempre concentratissimo, prende assolo molto lunghi, dall’impianto rapsodico, sempre cangianti di forme e ricchi di modulazioni, in un work in progress spontaneo, naturale e immediato. In tutti i brani, che siano il parkeriano “Cheryl“, o la ballad “Come Rain Or Come Shine“, o la brasileira “Aquelas coisas todas” di Toninho Horta, o la sua composizione “Moe Honk“, il mood rimane sempre il medesimo, un barocco romanticizzato che gioca con fantasiose astratte geometrie e disegna ghirigori segnati da guizzi improvvisi di idee folgoranti.
Il quartetto di Brandford Marsalis, formato dal pianista Joey Calderazzo,?? dal contrabbassista Eric Revis e dal batterista Justin Faulkner, è stato, a parere di chi scrive, la cosa migliore del Festival, ammesso e non concesso che si possano fare classifiche fra grandi artisti di diverse concezioni e differenti stili. Il quartetto ha illustrato un panorama dell’intera architettura compositiva che ha attraversato la storia del jazz, dal New Orleans, che è stato rivisitato modernamente, a Ornette Coleman e al John Coltrane più avanzato (ma non “rumorista”), suonando magnificamente con swing, bounce, espressività, sentimento, tecnica, fantasia. Tutti i brani sono stati concepiti e sviluppati “sinfonicamente”, con lunghi preludi, lunghi assolo, continui intrecci perfettamente studiati, interludi che si creano dei loro spazi diventando brani a sé; e sempre eseguiti con energia prorompente nei momenti più veloci e stasi di riflessione melanconica in quelli lenti. Oltre a Marsalis esuberante e fantasioso sia al tenore che al clarinetto, è risultata particolarmente felice la prova di Joey Calderazzo, a cui è stato dato ampio spazio per le sue continuamente cangianti improvvisazioni che sembravano competere con quelle precedenti di Mehldau. Una cosa è sicura: Calderazzo è da mettere fra i maestri del pianismo moderno, per sensibilità, visionarietà e virtuosismo.
L’ultimo concerto da noi seguito è stato quello dell’omaggio a David Bowie di Paolo Fresu. Con il trombettista sono stati sul palco Filippo Vignato al trombone, Francesco Diodati alla chitarra, Francesco Ponticelli al contrabbasso, Christian Meyer alla batteria e Petra Magoni al canto.
La Magoni ha interpretato con bruciante foga punk alcuni dei più famosi brani di Bowie, “This Is Not America“, “Let’s Dance“, “Space Oddity“, “Time“, “Life On Mars?” ed “Heroes” (nel bis), con un background costruito dai compagni ritmicamente ossessivo e incalzante, dove i solisti intrecciano riff melodici al canto o si scambiano assolo rispondendosi vicendevolmente, a volte prendendo il via per lunghe tirate, con vaghi riferimenti alle sonorità dell’ultimo Miles Davis.
Oltre alla programmazione all’Arena Santa Giuliana, al Teatro Morlacchi nel pomeriggio sono stati organizzati, a seguito di un’ottima lodevole idea della direzione artistica, una serie di concerti di sole orchestre italiane (è noto come sia difficile che oggidì sia data la possibilità di lavorare a grosse compagini). Ce ne sono state dieci, alcune “stabili”, altre di recente formazione, tutte con i loro precipui connotati espressivi e proposte di alta qualità. Ne abbiamo potuto seguire sette.
Originale la sinergia tra Ethan Iverson e l‘Umbria Jazz Orchestra, già realizzata in passato con un progetto su Bud Powell (di cui è uscito il relativo disco). Con “Ritornello, Sinfonias & Cadenzas” il pianista-compositore ha lavorato più su tecniche di tradizione classica. Pregevole la Colours Jazz Orchestra, fondata vent’anni fa e diretta dal trombonista Massimo Morganti, come la sempre sorprendente Lydian Sound Orchestra, costituita nel 1989 dal compositore-arrangiatore Riccardo Brazzale, che sembra sempre rinnovarsi nelle sue splendide proposizioni che si rifanno alla tradizione “moderna” del jazz. L’orchestra di Glauco Venier e Michele Corcella riporta le composizioni cinquecentesche di Giorgio Mainerio ai giorni nostri modernizzandole con grande efficacia e ricchezza di innovazioni. Sotto la direzione di Ferdinando Faraò l’affiatata e ormai longeva Artchipel Orchestra ha riproposto alcun brani del repertorio dei Soft Machine, attraverso arrangiamenti dinamici e serrati. La Tower Jazz Composers Orchestra, sotto la direzione di Alfonso Santimone, ha offerto arrangiamenti complessi e modernissimi, che ricordano certi scintillii kentoniani e subbugli Butch Morrisiani. Infine, fra le compagini da noi ascoltate, la recente Orchestra Nazionale Jazz Giovani Talenti, i cui brani sono stati composti da alcuni componenti dello stesso tentetto, oltre che dal contrabbassista (ma nella band ha suonato il violoncello, oltre che dirigerla) Paolo Damiani. Hanno prevalso sonorità morbide e cameristiche, un senso melodico accentuato, ascendenze folkloriche e di musica classica, con eccellenti giovani musicisti in bella mostra, sia come strumentisti che solisti. Sempre una bella speranza per il futuro del jazz e della musica.