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Umbria Jazz 22

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Perugia, 8-17 luglio 2022
Foto di Gianfranco Belfiore

Dopo un biennio reso difficoltoso dall’emergenza covid-19 con cancellazioni di concerti nel 2020 ed edizione in tono minore nel 2021, la musica è tornata a girare a pieno regime nell’estate perugina del 2022 per la quarantanovesima edizione di Umbria Jazz. Il programma è stato come al solito vasto e omnicomprensivo coprendo dieci giorni, dall’8 al 17 luglio, con 260 eventi (90 compagini e 500 musicisti), molti gratuiti, dislocati in undici differenti luoghi, l’intero centro storico percorso quotidianamente dalla marching band Funk Off (in tutto 27mila biglietti venduti e un milione di euro di incasso).

La formula è rimasta quella canonica, con i concerti all’aperto gratuiti ai Giardini Carducci, Piazza IV Novembre e, in aggiunta quest’anno, Piazza Matteotti; quelli a pagamento all’Arena Santa Giuliana (posta al centro del programma in qualità di main stage dei grandi eventi serali, spesso orientati verso il pop/rock), al Teatro Morlacchi e alla Sala Podiani della Galleria Nazionale dell’Umbria, questa con due set quotidiani – alle ore 12 e alle 15.30 – all’insegna in gran preponderanza del jazz acustico e italiano. Per i nottambuli tutte le notti fino alle ore piccole ha funzionato il club al Chiostro di San Francesco in via della Viola con la resident band composta da Piero Odorici e Daniele Scannapieco ai sassofoni, Paolo Birro al piano, Aldo Zunino al contrabbasso e Anthony Pinciotti alla batteria, ottima band post-bop che ogni volta ha dato la stura a interminabili jam session con svariati ospiti (fra cui i pianisti Dado Moroni e Fabrizio Puglisi). Da segnalare, infine, il ritorno, dopo due anni di sospensione, delle Clinics del Berklee College of Music di Boston, che per la trentacinquesima volta ha spostato i suoi corsi a Perugia sotto la supervisione del maestro Giovanni Tommaso, e lo spazio UJ4Kids dedicato ai bambini.

In tanta abbondanza sfrondiamo, limitandoci a dare conto solo dei concerti strumentali precipuamente jazz, escludendo pop, rock, funk, musica brasiliana, cubana e i concerti gratuiti (tutti con eccellenti musicisti, dei quali rappresentativamente sottolineiamo la bontà delle prove dei Tuba Skinny, del gruppo Modalità Trio con Nico GoriMassimo Moriconi ed Ellade Bandini, e della violinista Anais Drago), oltre che tutta la musica eseguita negli ultimi tre giorni a cui non abbiamo assistito. Il programma completo lo si può leggere qui. Procediamo cronologicamente a dare conto dei concerti (le sedi: SP=Sala Peviani; ASG=Arena Santa Giuliana; TM=Teatro Morlacchi).

Il pianista Mathis Picard (SP, 9/7) ha riproposto il concerto tenuto in completa solitudine al National Jazz Museum di Harlem a New York City nel gennaio 2019, pubblicato recentemente da Outside col titolo “Live At The Museum”. Picard si rivolge al passato, riproponendo attraverso la sua spiccata sensibilità composizioni di J.P. Johnson, Willie The Lion Smith, John Lewis ed Herbie Hancock e sue proprie dedicate a Thelonious Monk e Duke Ellington, con un ricco e risonante pianismo zeppo di eterogenee derivazioni (e citazioni), pienamente controllato tecnicamente.

Del gruppo Special Edition del trombettista Enrico Rava (TM, 9/7) fanno parte Francesco Bearzatti al sax tenore, Giovanni Guidi al piano, Francesco Diodati alla chitarra, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria. I sei hanno dato una prova di grande vigore e mordente, con suoni moderni, a volte avveniristici (Diodati), forte collegamento alla tradizione più estroversa (Bearzatti), con un trasbordare di invenzioni poetiche (Guidi) e una fluttuante e solida sezione ritmica (Evangelista e Morello). Rava, che ormai suona esclusivamente il flicorno, incanala l’eloquio in una propria personale classicità dalla bella vibrante sonorità, morbida nei toni medi e penetrante negli alti, e dalle linee chiare e avvincenti, sempre riuscendo a dare una sorpresa, un guizzo che incanta. La musica risulta mossa, sfrangiata, diversificata nelle forme, nelle dinamiche e negli accostamenti strumentali, e piena di pathos.

Francesco Diodati s’è esibito anche con il gruppo Tell Kujira (SP, 10/9) che comprende in formazione l’altro chitarrista Stefano Calderano, la violista Ambra Chiara Michelangeli e il violoncellista Francesco Guerri: una seducente proposta molto avanzata di brani lunghi in lenta e minimale trasformazione che creano arcane e audaci atmosfere con l’aiuto di un sapiente e calibrato uso dell’elettronica, di strumenti preparati e di accordature alternative.

La performance al piano solo di Franco D’Andrea (SP, 10/7) ha attinto a una grande ricchezza di materiali (sia quelli del suo passato sperimentati in formazioni diverse, sia quelle della tradizione, tutta, del jazz pianistico) da lui elaborati nel proprio personale laboratorio mentale, approfondendo ogni sezione senza mai cadere nella ripetizione, così venendo confermata la statura complessa, ma leggera e vitalissima, di un instancabile e impareggiabile ricercatore.

Itamela” (TM, 10/7) è il viaggio che s’è immaginato il pianista Dado Moroni presentandolo con il quartetto formato dalla chitarrista Eleonora Strino, dalla contrabbassista Yanara Reyes Mcdonald e dal batterista Enzo Zirilli (che s’è esibito con un braccio infortunato legato al collo), un viaggio partito da Genova, passato per Napoli, la Sicilia e l’Africa, prima di arrivare negli Stati Uniti e nel Brasile. Repertorio vario, quindi, per un gruppo coeso e pieno di verve che oltre la risaputa bravura di Moroni ha messo in mostra il chitarrismo fresco e brioso della giovane napoletana Strino.

I concerti alla Sala Podiani sono stati soprattutto recital al piano solo, come quello di Alessandro Lanzoni (SP, 11/7), basatosi soprattutto su improvvisazioni totalmente libere, a meno che non fossero agganciate di volta in volta, secondo l’estro del momento, a brani famosi, non solo del repertorio jazz, ma anche pop e rock. Gli assolo sono sempre calibrati e concepiti con un senso formale unitario, tanto da sembrare composizioni vere e proprie, piene di cambi di passo, sfumature e cadenze classicheggianti.

Il veterano Christian McBride, contrabbassista jazz, ma anche bassista elettrico in gruppi funk e fusion, s’è presentato (TM, 11/7) con il suo quintetto post-bop Inside Straight, in piedi da più di quindici anni, formato da eccellenze del mainstream jazz: Steve Wilson ai sassofoni contralto e soprano, Warren Wolf al vibrafono, Peter Martin al piano e Carl Allen alla batteria. Appunto, mainstream ai livelli più alti, con musicisti impeccabili e una musica esuberante e palpitante.

Giovanni Guidi, oltre che con il gruppo di Rava, s’è esibito anche da solo (SP, 12/7), presentando la suite “100 Comizi d’Amore” dedicata e ispirata a Pier Paolo Pasolini, considerato il proprio maestro. Il concerto si traduce in una conversazione intima che il pianista fa con lo scrittore e poeta, una lunga emozionante conversazione che mischia domande, perplessità, sicurezze, gioie, amarezze, delusioni e speranze che la musica ripropone con mutazioni varie di registro. Alle nuove dimensioni di sonorità, intensità e dinamica Guidi non arriva mai repentinamente, ma con lente, continue e meditate costruzioni, attraverso andamenti classicheggianti, turbinii iconoclasti e diradazioni estreme che sembrano puntare, e forse arrivare, a un “oltre” metafisico.

Da canto loro, Luca Aquino, trombettista, e Natalino Marchetti, fisarmonicista, hanno magnificato in perfetta sintonia l’arte dell’improvvisazione con rapide e subitanee risposte reciproche ai sempre inusitati lanci proposti di volta in volta da ognuno di loro. Basandosi sulle melodie di alcune più o meno celebri canzoni (anche italiane), la fisarmonica ha sorretto in continui cambi di registro e di tipi di armonizzazione, a volte pure discordanti, la tromba nella sua bella linearità squillante della voce, a tratti lancinante e ingrovigliata in fraseggi rapidissimi.

Forte del disco da poco pubblicato dalla Ecm, “Uneasy“, Vijay Iyer s’è presentato (TM, 12/7) con un trio che, nonostante la giovane età dei componenti, si può già definire di all-star, fra i maggiori musicisti contemporanei in attività, certamente come strumentisti, ma anche come compositori e sperimentatori di idee nuove: sono, oltre lo stesso Iyer al piano, la contrabbassista Linda May Han Oh e il batterista Tyshawn Sorey.
Iyer ha portato note ancora più scure al suo consueto pianismo caratterizzato da asetticità del tocco, uso ponderato e icastico delle linee melodiche, imperante logica matematica, senza effusioni sentimentali (se non qualche richiamo a Debussy e agli impressionisti nei brani più tranquilli). Ma ha anche acquistato, rispetto al suo passato, densità armonica e impeto espressivo, con maggiore coinvolgimento emotivo nei lunghi maelstrom improvvisati con innervante inesausta fantasia, viaggiando su ondulati territori politonali, varie temperate complessità, serrati lucidi melodismi. Con i compagni, che lo coadiuvano alla perfezione (Sorey è uno spettacolo in sé, per le complessità e le finezze mostrate), crea un affresco cupo e inquieto, spogliato da qualsiasi orpello di retorica.

Saltiamo, come annunciato, le prove dei cantanti Dee Dee Bridgewater (ASG, 12/7), votata a un funky elegante e disinvolto, e Kurt Elling (TM, 13/7) che ha offerto uno show, distillato della sua carriera, ben funzionante come un orologio svizzero, per passare ai due gruppi in cui era presente il contrabbassista Marco Bardoscia: il Sade Mangiaracina Trio (SP, mattina del 13/7), con il batterista Gianluca Brugnano, e il Marco Bardoscia Trio (SP, pomeriggio del 13/7), con William Greco al piano e Dario Congedo alla batteria (Bardoscia è stato presente anche nel gruppo di Dino Rubino, che non abbiamo potuto ascoltare). Il pianismo della Mangiaracina è ricco di derivazioni folk mediterranee e si sviluppa con accurata raffinatezza alternando melopee riproposte continuamente con abbellimenti a pure improvvisazioni basate sugli accordi, anche complicandosi su ritmi arditi ed elaborati. Bardoscia è strumentista eccellente, dalla voce robusta e piena e dalla cavata rotonda e propulsiva, ma anche compositore e leader, come ha dimostrato col trio da lui guidato. Prendendo dall’album “The Future Is A Tree” (Tuk, 2020), il contrabbassista ha presentato una suite che gli è stata ispirata dalle stagioni e dal loro passare, una musica piena di sfumature e di pathos, variabile nelle atmosfere, come appunto le stagioni, mantenendo un impiantito semplice e armonico che esalta i passaggi melodici, con il prezioso ausilio dei due compagni, estremamente efficaci.

Il sassofonista tenore “King” Shabaka Hutchings, diventato con i gruppi Sons Of Kemet e Shabaka And The Ancestors una delle punte del nuovo jazz inglese e internazionale, a Perugia (ASG, 13/7) s’è presentato con il Comet Is Coming, trio con Dan “Danalogue” Leavers alle tastiere e sintetizzatore e Max “Betamax” Hallett alla batteria. La sua musica è essenzialmente fusion (il jazz di Sun Ra più funk, elettronica, techno e rock) portata alle estreme conseguenze acustiche, sia come volume che come sonorità. Persiste un avvolgente magmatico suono elettronico pieno di effetti che si mantiene su lunghi accordi basantesi su un unico centro tonale. Su ostinate e minacciose oscillazioni di onde sinusoidali crescenti, Hutchings, in maniera indistinta rispetto al volume che lo avvolge, sviluppa le sue improvvisazioni, molto cadenzate, piene di riff e note allungate e ripetitive, mentre il ritmo tribale incalzante ogni tanto cambia di direzione. L’effetto è ipnotico e stordente, allucinogeno e apocalittico, dà l’idea di una preghiera implorante effettuata in stato di trance in una atmosfera afro-ritualistica.

Stefano “Brushman” Bagnoli, batterista alla guida del trio We Kids, titolo riferentesi ai gruppi in cui costantemente propone musicisti giovanissimi, ha dedicato una sorta di lunga suite alla figura artistica di Salvador Dalì (SP, mattino del 14/7), riproponendo i brani del recente album “Dalì” registrato per la Tuk. Con i bravissimi Giuseppe Vitale al piano e Stefano Zambon al contrabbasso ha così cercato di far corrispondere gli stati emotivi della musica con quelli dell’opera del celebre iconoclasta pittore surrealista, mescolando e alternando acustica con un po’ di elettronica, momenti fortemente espressivi con altri onirici, visioni celestiali con precipitazioni terrene, sempre con un afflato immaginifico e a tratti irriverente (quest’ultimo soprattutto per alcuni interventi pianistici di Vitale), in tanti bozzetti stratificati con andamento elegante e sofisticato.

Voices Of Colors s’è chiamato il gruppo composto da musicisti di diverse nazionalità guidato dal batterista Martin Valihora, uno dei nomi di punta della scena jazzistica slovacca, con la quale s’è voluto festeggiare il sessantesimo anniversario del gemellaggio tra Perugia e la capitale Bratislava (SP, pomeriggio del 14/7). Con lui erano sul palco il pianista e organista polacco Piotr Wylezol, il chitarrista ceco David Doružka il bassista italiano Daniele Camarda, il trombettista ungherese Kornél Fekete-kovács e il sassofonista slovacco Radovan Tariška, dando vita a un post bop con venature fusion corposo ed estroverso.

Il tenor sassofonista e flautista Charles Lloyd e il chitarrista Bill Frisell si sono fra loro trovati a meraviglia in un quartetto comprendente anche i due formidabili Reuben Rogers, contrabbassista, e Kendrick Scott, batterista (TM, 14/7). Con un approccio più “avanzato” (i tempi sono cambiati e molta acqua è passata sotto i ponti), hanno ricordato il sodalizio d’una sessantina d’anni fa di Sonny Rollins e Jim Hall: del primo, Lloyd ha la verve mordace e il disarticolato andamento; del secondo, Frisell ha il fraseggio stretto a salti intervallari inusuali, la sonorità morbida e una sospesa estaticità.
I due si ascoltano e si stimolano, Lloyd attraverso vie snodate che percorrono ampi saliscendi e dinoccolate sinuosità, Frisell con una sicurezza che esprime perplessità e un brio che esprime snervamento: intuiscono subitaneamente dove l’altro sta andando e si seguono con una sorprendente nodosa levità e una congerie di continue belle trovate e felici inattese soluzioni musicali.

Se Lloyd a 84 anni è sembrato fresco come una rosa, anche Herbie Hancock, a 82, non è stato da meno. Un concerto spettacolare, il suo, sotto tutti i punti di vista, per la tecnica strumentale, la varietà delle situazioni, il bilanciamento fra le parti accattivanti e quelle precipuamente musicali, l’energia positiva profusa (ASG, 14/7). In formazione elettrica a quintetto, supportato da musicisti del calibro di Terence Blanchard (tromba), Lionel Loueke (chitarra), James Genus (basso) e Justin Tyson (batteria), Hancock (piano acustico, piano elettrico, clavietta, canto) ha proposto alcuni tra i suoi pezzi più celebri, prediligendo il lato fusion della sua produzione: apertura con una suite/medley di frammenti vari, poi “Footprints“, “Actual Proof“, “Sunlight“, “Come Running To Me” (queste due ultime con il leader al canto con la voce filtrata dal vocoder), “Cantaloupe Island” (dove ha imbracciato la sua scintillante clavietta Roland bianca) e, come bis, “Chameleon“, in versione lunga e funky. Pur se l’avvincente performance si sia orientata verso gli esperimenti elettronici jazz-funk degli anni Settanta e Ottanta (coadiuvato da Blanchard che ha usato la tromba con “effetti chorus” che ne hanno continuamente sdoppiato la voce), questi (come del resto gli interventi alla clavietta) sono stati più contenuti rispetto alle precedenti ultime esibizioni, dedicandosi invece maggiormente al piano acustico, sempre in maniera magistrale, addentrandosi anche in alcune dissonanze che avrebbero potuto appartenere alla più bella avanguardia.