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Un italiano a New York. Intervista a Sal Bonafede

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foto a colori di Vincenzo Fugaldi
foto storiche in bianco e nero e locandina archivio Bonafede

Per chi non conoscesse Sal Bonafede, giova ricordare che il pianista ha iniziato a studiare musica sin da bambino, appassionandosi al jazz seguendo i concerti dello storico Brass Group jazz club di via Duca della Verdura. Dopo un lungo periodo negli Stati Uniti (prima al Berklee College of Music per gli studi e, successivamente a New York per iniziare una luminosa carriera artistica), rientra nella natia Palermo. Tanti dischi a suo nome, fra i quali “Actor-Actress” in quartetto con Joe Lovano, Cameron Brown e Adam Nussbaum, “Plays”, con Marc Johnson e Paul Motian, “Plays Gershwin” con Brown e Michael Sarin, “Ortodoxa” e “Paradoxa” per la Red Records, “Journey to Donnafugata”, “For the Time Being” e “Dream and Dreams” per la Cam Jazz, “Sicilian Opening”, con Marco Panascia e Marcello Pellitteri, e il recentissimo SAL (Serenity and Love) in piano solo. Tra gli innumerevoli trascorsi artistici, la sua brillante collaborazione alle colonne sonore dei lavori di Daniele Ciprì e Franco Maresco e, successivamente, del solo Maresco.

Un giorno di maggio 2024, fra un couscous e un pesto alla trapanese, abbiamo chiesto a Sal di raccontarci dei suoi gloriosi anni newyorkesi. Lo ha fatto con dovizia di particolari, con il suo eloquio calmo, riflessivo, inframezzato da opportune pause, che ricordano il suo stile pianistico:

Arrivo a New York il giorno stesso della mia laurea al Berklee. Avevo già in mente di andare a New York dopo gli studi. Boston è una città amabile, piccola, a misura d’uomo, con meno di un milione di abitanti, penso più della metà studenti. Nella stessa strada del Berklee, dove ho studiato, c’è la sede del MIT, Harvard, dall’altro lato della via il New England Conservatory e il Boston Conservatory, per gli studenti è una città meravigliosa.

New York è un’altra storia. Penso che da almeno cento anni, da quando Louis Armstrong da Chicago andò a suonare nell’orchestra di Fletcher Henderson, lui che già allora, ventitreenne, rappresentava il prototipo del jazzista che deve trovarsi nel posto giusto al momento giusto, New York sia, almeno per il jazz, un luogo in cui trovi, tutte le sere, un’orchestra swing, un’orchestra come quella che era conosciuta come la famosa Thad Jones/Mel Lewis Orchestra, che poi divenne Mel Lewis & The Jazz Orchestra quando Jones andò a vivere in Danimarca, e morto Lewis diventò la Vanguard Jazz Orchestra. Questa come tante altre (ad esempio la Toshiko Akiyoshi Jazz Orchestra, e successivamente la Maria Schneider Jazz Orchestra). Ogni lunedì a New York c’è la serata delle orchestre. Una volta ho fatto un calcolo insieme a dei colleghi e abbiamo contato fino a ventiquattro big band. Insomma, da Boston a New York ne passa. A New York quando sono arrivato, per esempio, muoveva i primi passi il Knitting Factory, dove tutte le sere o quasi trovavi Zorn, Frisell, Wayne Horwitz, Joey Baron. Poi andavi a sentire le orchestre, poi Tommy Flanagan, Kenny Barron. Il classicismo, l’avanguardia, le big band, i combo, c’era tutto.

Che anno era?

Sono arrivato ad agosto 1989. Il giorno stesso della mia laurea, come dicevo prima, ho riempito una Ford 5000 LTD 8 cilindri che mi regalò Jerry Bergonzi, con cui suonavo quando abitavo a Boston. Lui si era sposato con una pianista, Jeri DiMarco, e si ritrovarono con tre auto, così una me la regalò. Faceva due chilometri al litro, ma era enorme, e con quest’auto ho fatto il trasloco, mettendovi dentro tutto, futon, libreria, libri, partiture, dischi, giradischi, vestiti, e con mia moglie siamo partiti per New York il giorno stesso. La sera ricordo che andai al Village Vanguard, dove suonava Lovano, con il quale ho avuto il rapporto forse più profondo tra tutti i musicisti newyorkesi. Mi sono presentato, gli ho detto: sono Salvatore Bonafede: uno dei motivi per i quali sono qui, sei tu. Mi chiese da dove venivo, e così cominciò tutto quel viaggio, in tutti i sensi, di Lovano, che nel 2003, quando già ero tornato in Italia mi chiamò e mi disse che voleva fare l’albero genealogico della sua famiglia, i Lovano e i Virzì. Da quel momento, trascorreva una parte di ogni estate a casa mia all’Addaura, vicino al Golfo di Mondello, e abbiamo iniziato a visitare i paesi natii dei suoi genitori, posti sui Nebrodi che io non conoscevo: Alcara Li Fusi, da cui proviene la parte paterna (che lì è Lo Vano), e Cesarò, da cui proviene la parte materna.

La dimensione newyorkese è una dimensione, penso tuttora, completa di tutti gli stili. A New York ci sono (o forse c’erano) le più importanti case discografiche come la Blue Note, e i manager, i promoter, i locali come il Blue Note e il Village Vanguard. Lovano mi portava sera per sera in questi locali, presentandomi ai doormen, coloro che stanno alla porta e che facevano i biglietti, allora molto cari. Mi presentava a tutti dicendo: “questo è cosa mia”, tanto è vero che a un certo punto l’ambiente newyorkese del jazz cominciò a chiamarlo il padrino. Di fatto non siano andati molto lontano da questa realtà un po’ hollywoodiana, perché da lì a poco nacque mia figlia Frida, che ora ha 31 anni, e Lovano fu il suo padrino di battesimo.

Appena messo piede a New York, la prima sera, come dicevo, sono andato al Village Vanguard. Lovano mi disse subito che il giovedì seguente avrebbe fatto una session a casa sua, dicendomi di presentarmi alle 19 per suonare insieme. Di fatto poi ho avuto l’impressione che fosse una sorta di test, voleva sentirmi suonare. Mi ricordo che arrivai in orario, e trovai nel suo loft, 23. Street fra 7. e 8. Avenue, seduti, nell’ordine, John Abercrombie alla chitarra, Jay Anderson al contrabbasso, Jeff Hirshfield alla batteria e, ovviamente, il padrone di casa. Erano già tutti seduti con i loro strumenti, proti, alle 19 in punto, che mi guardavano, come a dire: alle 19 si comincia a suonare, quindi dovevi venire molto prima. E io lì ho avuto un assaggio, ho percepito chiaramente una dedizione alla musica totale e assoluta, che va al di là delle indiscutibili competenze tecniche e artistiche di quei musicisti. Non era neanche una prova per un concerto, lo sarebbe stato in seguito, era solo una session privata a casa di Lovano. Ma lì non si scherza mai. Quando io oggi ho prove con gruppi con cui suono, allievi, colleghi, ecc. e arrivano con mezz’ora di ritardo, io non so che dirgli, e questa storia non la racconto più, qui è un altro mondo, un’altra mentalità. New York mi ha dato questo biglietto da visita: sei qui, e se vuoi fare musica, la devi fare al 110%. Non ha importanza che tu sia talentuoso: se sei qui e sei una testa di cazzo, non hai dove andare. Mi ricordo che una volta, anni dopo, ho tenuto un seminario alla Scuola di Musica Saint Louis a Roma, e c’era il contrabbassista storico del gruppo di Brad Mehldau, Larry Grenadier, il quale teneva anche lui questo seminario aperto agli allievi. Larry ha avuto una carriera folgorante, e qualcuno dei ragazzi gli domandò come aveva fatto a entrare nell’ambiente, a farsi conoscere. Lui è di San Francisco, arriva a New York e subito la sua carriera parte in maniera folgorante. Rispose: arrivando in orario alle prove. I ragazzi stentarono a credere a questa risposta, ma io capii. Per i musicisti newyorkesi la tua dedizione è la cosa più importante, dato per scontato il talento. Se sei lì, e vuoi suonare con Lovano o altri, è chiaro che devi avere i mezzi espressivi adatti, per esempio conoscere tutti gli standard, conoscere l’ambiente, la storia, la teoria. Ma se sei una persona poco affidabile la città ti esclude. Da lì tutte le storie, per esempio di Charlie Parker che era poco affidabile, mentre invece Dizzy Gillespie era molto affidabile, e stava sulle copertine dei giornali, aveva i contratti discografici, tutti preferivano avere a che fare con lui, anche se il suo talento quasi certamente era inferiore a quello di Parker. Quindi quella fu la mia prima lezione a New York. Alla fine della session, dopo un paio d’ore (mi ricordo che non fu una jam nel senso che si facevano brani conosciuti, ma Lovano aveva composto dei brani, ancora manoscritti, e li dava ad Abercrombie, a me, al bassista, e staccava il tempo alla velocità del brano) ho capito che devi leggere, interpretare, improvvisare su giri armonici mai visti, devi essere puntuale. Ho pensato: cavolo, questa città pretende, pretende assai! Chiaramente ero in una nuvola di felicità inarrivabile. A fine session Joe mi disse: guarda, avrei una serata la settimana prossima, il pianista non può venire… Poi scoprii che lui mi sostituì a quel pianista, non era vero che non poteva venire.

Chi era il pianista?

Era Marc Cohen, poi noto come Marc Copland. Joe quella volta chiamò Marc e gli disse che la serata non si faceva più e chiamò me al suo posto. E io lì ho pensato: bene, allora ci siamo, mi hanno accolto. Ora sta a me sbracciarmi, lavorare sulla lettura, sull’interpretazione, la tecnica, la professionalità insomma. E lì cominciò la mia vita professionale, dopo anni di lezioni a Boston, con compagni come Roy Hargrove, Kurt Rosenwinkel, Geoff Keezer, Danilo Perez (lui finiva e io iniziavo), insomma un po’ di gente dal talento straordinario che però era ancora a livello di college: quindi divertimento, birre, jam sessions, lezioncine, compitini di armonia, arrangiamento, ecc., ma niente a che vedere con New York.

Dove suonasti poi con Joe?

Al Visiones, che era nello stesso isolato del Blue Note. Lì suonavano spesso per esempio Paul Bley, Lovano, il quartetto di Dave Liebman con Billy Hart e l’allora immancabile Richie Beirach al pianoforte. In questo locale si esibiva spesso Mark Feldman al violino. Diciamo che lì non suonavano le star, queste si esibivano al Blue Note. Lì ho fatto la mia prima serata. Alla batteria ricordo che c’era Bill Stewart, allora un ragazzino che veniva dal Midwest, scoperto proprio da Lovano, che a quel punto mi dava l’impressione di essere veramente un talent scout. Con Lovano poi abbiamo condiviso la radice siciliana e quindi abbiamo avuto modo di approfondire questo argomento, fino al film che è uscito quest’anno 2024, Lovano Supreme, nel quale ovviamente faccio parte del cast. Franco Maresco ha raccontato questa storia dei siciliani che partono, non quelli di New Orleans, quella è una storia ancora confusa, carica di leggende, quindi anche di bugie, di menzogne, ma la storia invece dell’emigrazione dell’ultima ondata, quella che viene chiamata la quarta ondata migratoria, di quelli che invece andavano a New York, a Staten Island. E da lì ho conosciuto tanti figli e nipoti di questa ondata di emigrazione, per esempio George Garzone, Jerry Bergonzi, Lovano, che sono tutti più o meno coetanei, e con cui ho suonato. Da quel momento New York mi ha dato la possibilità di crescere. Con Lovano ero sideman. Dopo varie serate che facevo al Visiones, chiesi timidamente, prudentemente, al direttore artistico del locale Gust Tsilis, vibrafonista jazz di origini greche, se potevo fare una serata a mio nome. Mi disse subito di sì, bastava che portassi un mio gruppo. Era dicembre, ero arrivato ad agosto, dopo solo quattro mesi ebbi la mia prima serata da titolare. Mi disse ovviamente di non chiamare Lovano, dato che lì suonavo sempre con lui, ma di creare un gruppo diverso da quelli con cui fino ad allora avevo suonato. Misi mano al telefono e chiamai Tom Harrell, Billy Hart…

Già li conoscevi?

Sera dopo sera Lovano mi faceva fare il giro dei locali, fino alle sei del mattino, e mi presentava a tutti, tanto che sul primo articolo apparso su di me sul giornale storico culturale di New York “The Village Voice”, scrissero che ero un protégé di Lovano. Definizione anche abbastanza ambigua, trattandosi di due siciliani, poteva essere fraintesa. Comunque io già avevo conosciuto un po’ tutti, per esempio Paul Motian, che allora cominciava la sua avventura col trio con Bill Frisell e Lovano. Per ogni concerto del trio Joe mi invitava. Ricordo di avere assistito alla prima serata di questo trio, al Knitting Factory. In quei tre o quattro mesi ebbi i contatti di tutti i musicisti di New York, giovani, meno giovani, bianchi, neri. Per quella serata chiamai Tom Harrell, Billy Hart e Cameron Brown, che ricordavo con gioia immensa quando nei tardi anni Settanta veniva in Italia con un gruppo che era la costola del quintetto di Charles Mingus, con Dannie Richmond, George Adams e Don Pullen. Morto Mingus, Cameron Brown prese il suo posto. Questo quartetto lo portò in Italia Isio Saba, e suonava molto spesso. Ero un ragazzetto, avevo quindici anni nei tardi anni Settanta, ma ricordo che avevano una grande energia. Un’energia mingusiana, suonavano per spaccare tutto, c’erano anche significati politici nascosti e meno nascosti nella loro musica, c’era il gospel, c’era il free. Ricordo che Don Pullen fu uno dei primi pianisti che vidi che suonava con i pugni, ma fu anche uno dei primi pianisti che vidi sanguinare sulla tastiera, finiva i concerti sanguinando perché la foga e l’energia con cui suonava erano veramente esagerate.

Mi feci scrupoli a domandare a questi musicisti di provare. Dissi che avevo scritto della musica che pensavo fosse molto facile, ma dissero che invece volevano provare, pretendevano di farlo. Così mi ritrovai a casa di Cameron Brown e scoprii che Dannie Richmond quando morì lasciò la sua batteria a Brown, essendo loro sodali. Analogamente un paio d’anni dopo, a casa di Paul Motian, scoprii che Jarrett, quando andò via da New York, gli lasciò il suo mezzacoda. Quindi mi ritrovavo in mezzo a questi strumenti che da un punto di vista storico, quasi feticistico, contenevano l’anima dei rispettivi proprietari.

Quindi hai suonato sul piano di Keith Jarrett.

Sì, a casa di Paul Motian ho suonato sul piano di Jarrett, e poi al Village Vanguard… ah, un’altra cosa molto bella di questa città: quando conobbi Lovano, lui suonava ancora nell’orchestra di Mel Lewis, peraltro Mel era vivo, quindi ogni lunedì sera, d’obbligo, io ero lì. Allora il pianista fisso dell’orchestra era Kenny Werner, che mi vedeva lì ogni volta ad assistere ai due set. Insomma, da lì a qualche mese, un giorno Kenny mi chiama e mi dice che il lunedì successivo non potrà suonare nell’orchestra e mi chiede di sostituirlo. Io svenni… disse che mi vedeva lì da mesi, conoscevo perfettamente il book. Peraltro Mel Lewis, non molto tempo prima, era stato ospite di quelle stagioni che allora organizzava Ignazio Garsia con la nascente orchestra del Brass Group. A partire dal 1984 ricordo di avere suonato nell’orchestra del Brass con Archie Shepp, Toshiko Akiyoshi e con Mel Lewis. Quindi Mel addirittura si ricordava di me. E io avevo suonato quei brani del book di Thad Jones e Bob Brookmeyer, quindi in effetti Kenny Werner è andato sul sicuro. Quello fu il mio debutto al Village Vanguard, dove ancora c’era il pianoforte che Bill Evans aveva suonato negli ultimi anni. Quindi ogni giorno mi confrontavo con quella che era per me la storia con la S maiuscola di questa musica. Suonare con questi musicisti, quei repertori, addirittura quegli strumenti… ogni giorno New York si donava. Quello fu un momento magico, che è durato un bel po’ di anni, per la mia crescita musicale.

Chiaramente quando sono tornato in Italia, verso metà degli anni Novanta, con la mia primogenita Frida ancora piccolina, tutti, ma proprio tutti, mi chiesero perché ero tornato. Io ad oggi non saprei rispondere a questa domanda. Perché sono tornato? Perché pensavo che New York fosse una città per adulti, non per i bambini, ed essendo nata mia figlia, e provenendo io da una famiglia tradizionale, desideravo che la ragazzina crescesse in mezzo a nonni, zie, affetti familiari, riunioni di famiglia, cene, pranzi, ecc. New York questo non lo poteva offrire. Lì penso che, come in tante altre città molto dense dal punto di vista della popolazione, ci siano venti milioni di persone sole. Tuttavia, comunque sia, le mie collaborazioni con questi musicisti continuano. La mia esperienza lì era diventata così densa e ricca che potevo vivere di rendita. Ancora oggi studio sugli appunti delle lezioni private che prendevo, per esempio, da Lee Konitz. Conobbi Lee, e devo dire la verità che non mi sentii di chiedergli di suonare con me. Non so perché, forse perché sono cresciuto come tanti della mia generazione ascoltando Birth of the Cool del 1949, dove suonava anche lui. Gli chiesi di darmi delle lezioni, e accettò tranquillamente.

Poi chiesi lezioni a Paul Bley, e quella è stata l’esperienza didattica più bella della mia vita, soprattutto per il fatto che Bley continuava a dirmi che lui non dava mai lezioni private. Quando lo chiamai la prima cosa che dissi fu: Paul, mi ha dato il tuo numero Paul Motian, vorrei studiare con te. Quello fu il miglior biglietto da visita che potessi utilizzare. Disse: sì, va bene, vieni a casa mia venerdì e te ne vai domenica, facciamo una lezione di tre giorni. Io avevo fatto studi classici al Conservatorio ed ero abituato a lezioni di un’ora… Mi disse che mi avrebbe dato un cottage con un pianoforte a coda a mia disposizione. Rimasi veramente basito. Andai, alla domenica mi aspettavo un conto mostruoso, e mi disse che non gli dovevo niente, ci saremmo visti il mese successivo. Ecco, tutti questi regali che mi ha fatto New York sono veramente indimenticabili.

Raccontaci quindi di Paul Bley…

Paul Bley lo scopro ogni giorno, sia con le mie ricerche sui dischi, sugli assolo, sia con le parole di tanti musicisti jazz. Nell’ultima intervista che ho letto, Pat Metheny a un certo punto dice che nella versione di “All The Things You Are” incisa in quel disco un po’ “strano” che è “Sonny meets Hawk!” del 1963 – in cui c’è l’incontro fra Sonny Rollins, diciamo il cadetto, e Coleman Hawkins che è the father of tenor sax, due generazioni, due giganti – l’assolo di Paul è in forma atonale. Lui era già un pianista completo nel 1963, e nel decennio successivo avrebbe registrato i primi dischi di piano solo come “Open, to Love”, un disco totalmente aperto all’improvvisazione, secondo quella che poi sarebbe stata la cifra jarrettiana. Si parte dalla prima nota, e poi si vede dove si va. Credo che la paternità di questo approccio l’abbia Paul Bley. Difatti, fra i compiti che mi lasciava, mi diceva: fai cinquanta microcomposizioni di un minuto ciascuna, tutte una differente dall’altra. Io, come si dice, partivo in quarta, ma dopo la terza non sapevo più cosa fare, e quindi dovevo lavorare di fantasia su queste microcomposizioni, una sorta di Mikrokosmos alla Béla Bartók. Dopo qualche mese Bley mi disse: questa libertà che io ti induco, devi poi portarla negli standard. La forma canzone è una sorta di prigionia, però tu devi ritrovarti libero, là dentro, di muoverti come vuoi, sempre in forma differente. Dopo tanti anni ho scoperto che Bley, che era di Montreal, a undici anni si era diplomato in pianoforte classico. Penso che per il saggio finale abbia eseguito uno dei concerti di Mozart per orchestra e pianoforte. Ma questo non me lo disse mai. Quindi un’altra lezione fu l’umiltà, che ormai non so se esiste più, se i giovani la capiscono. Non mi disse mai che era stato un bambino prodigio, diplomatosi a undici anni. Era figlio adottivo di un ricchissimo commerciante ebreo, sui vent’anni andò a New York, già pianista completo, perfetto, meraviglioso, non gli mancava nessuna cifra. Si iscrisse alla Juilliard e si diplomò in composizione. Anche questo non me l’ha detto.

Dunque lì, ogni giorno o quasi, ero a contatto con dei veri giganti. Ma giganti buoni, silenziosi, disponibili, aperti, che mi davano lezione e non mi domandavano soldi. Lì cominciai anche a pensare, più che altro, che possibilmente questi musicisti vedevano in me qualcosa. Come detto, Bley non dava lezioni private a nessuno, e mi diceva che io ero l’unico, quindi mi caricava anche di una certa responsabilità, come a dire: metti a frutto quello che ti insegno. Paul Bley aveva detto che mi dava lezioni perché aveva capito che facevo musica con tutta la passione, con il cuore. A ogni lezione, prendeva dei vinili suoi. Una volta mi disse, qui suono il moog, guarda la data: 1965. Mi diceva che quando Hancock e Zawinul incominciavano a suonare le tastiere, lui già le suonava da otto anni. Una volta prese un vinile, e fu un momento in cui lo vidi molto orgoglioso. Era una suite scritta da George Russell, Jazz in the Space Age, nel quale il suo pianoforte era insieme a quello di Bill Evans. Lo disse con una fierezza, un orgoglio veramente commoventi. E lì capii anche la grandezza di Evans, che forse oggi è riconosciuta solo in parte, e che rischia di finire nel dimenticatoio. Non vedo un grande lavoro nel mettere in evidenza la figura di Bill Evans come è stato fatto nei decenni per esempio con Art Tatum o Duke Ellington.

Ricordo che in una delle prime serate che facevo al Visiones a mio nome, una sera venne un produttore giapponese, Kenichi Fujiwara, che mi propose di fare un disco da leader. Era amico della connazionale Toshiko Akiyoshi, che avevo conosciuto a Palermo e che poi sono andato a ritrovare a New York. L’anno successivo al mio arrivo in città, nel 1990, registrai il mio primo disco, ovviamente con Joe Lovano, Adam Nussbaum e l’immancabile Cameron Brown. Finito questo disco, il produttore mi disse che l’anno seguente ne avremmo fatto un altro. Io così cominciai a pensare più al pianoforte, quindi più a un trio. Fino a quel momento mi ero esibito con Lovano, a nome mio o a nome suo, con Tom Harrell, Bob Mintzer, Gary Bartz, con tanti solisti uno più bravo dell’altro. Paul Bley cominciò a dirmi: fatti i tuoi brani, costruisci la tua cifra pianistica, e il tuo trio, in modo da far sentire il pianoforte. Così chiamai il primo batterista di Bill Evans, Paul Motian, e l’ultimo bassista di Bill Evans, Marc Johnson, li ho messi insieme e abbiamo fatto questo disco (Plays, 1991), un’altra esperienza magica. Ricordo che qualche giorno dopo che avevamo terminato la registrazione, Motian mi chiamò a casa per farmi i complimenti: Motian, che, notoriamente, era un po’ spigoloso come persona, per usare un eufemismo. Mi disse che era stato bellissimo, e che qualche mese addietro aveva fatto un disco a suo nome con Marc Johnson (“Bill Evans”, per l’etichetta JMT, che non ha deciso di vendere, o per meglio dire svendere, il proprio catalogo alle piattaforme, disco dunque introvabile) e mi disse che si era trovato meglio con Marc e me che solo con Marc nell’incisione a nome suo. Non credevo alle mie orecchie, lo ringraziai e gli chiesi se fosse disposto a fare una tournée con me. Acconsentì, dunque chiamai Marc Johnson e gli proposi la medesima cosa, altra risposta positiva, chiamai Lovano e anche lui acconsentì. A quel punto telefonai a Pompeo Benincasa, di Catania Jazz, e gli feci questi nomi. Mi organizzò subito una tournée di dieci date, tra cui il Capolinea, il Teatro Ariston di Sanremo, Catania, Palermo. Era il 1992. Così mi ritrovai in tour su un furgoncino a nove posti in giro per l’Italia, con questi musicisti accanto che mi parlavano per ore e ore, ogni giorno, di Bill Evans… pensai: Dio esiste! Quei giorni newyorkesi, il tour, mi hanno fatto sentire parte di questa storia. Loro mi hanno preso per mano e mi hanno detto: tu sei dei nostri.